Forse neppure lo psicologo Paul Ekman, massimo esperto di micro-espressioni facciali, saprebbe venire a capo dell'enigma Draghi. Con quell'assenza di increspature sul viso, quei sorrisi più rari di una foca monaca, Super Mario sarebbe un perfetto giocatore di poker.
Coloro che già lo aspettano sotto uno scranno parlamentare o in un angolo buio della buvette con una misericordia pronta a pugnalarlo alle spalle, sono avvertiti: l'uomo non è un pesciolino rosso transitato per sbaglio in una vasca di piranha. È, semmai, un maschio alfa che ha steso reticoli di filo spinato a protezione della propria privacy e che appare appena un po' più ciarliero di Enrico Cuccia. Con il fu dominus di Mediobanca condivide l'insondabilità e una certa uggia per le decisioni collegiali. Un accentratore, ma con una rara abilità nel coagulare consensi. Ciò che più serve ora all'Italia è proprio quella dote, messa in campo durante gli anni a capo della Bce per depotenziare i falchi del board, contrari a una politica monetaria sempre più lasca. Draghi è stato divisivo nel settennato di permanenza all'Eurotower. Francoforte veniva dalla non memorabile esperienza dell'olandese Wim Duisemberg e dalla gestione claudicante di Jean Claude Trichet, più preoccupato dalla pagliuzza inflazionistica nell'occhio che dalla trave da recessione in arrivo. Il banchiere romano arrivò fra le fanfare tedesche. La Bild lo ritrasse in copertina con l'elmo prussiano in testa. Come dire: Mario uno di noi. Alla fine, il giudizio è cambiato. Metà dei tedeschi lo ama ancora, al punto da avergli conferito la Croce al merito per aver strappato Eurolandia, e quindi la stessa Germania, dal burrone. La parte residua lo odia senza riserve e lo dipinge come il Draghila succhiatore dei teutonici risparmi per mezzo della piallatura dei tassi. Il suo whatever it takes, peraltro mutuato dal Costi quel che costi delle brigate Aosta e Piemonte durante la guerra di Crimea, è considerato tuttora una bestemmia economica. La frase, celeberrima, resta tuttavia un concentrato della capacità comunicativa - quando è necessario - dell'ex governatore di Bankitalia. Ha la stessa forza del Don't fight the Fed. Non fate guerra alla Bce, potresti farvi molto male, era il messaggio implicito. Nessuno azzardò: l'euro fu salvo, l'Italia pure.
Ma fra il Draghi che si appresta a ricevere le chiavi di Palazzo Chigi e quello che comandava la Bce rischia di crearsi uno iato. All'istituto centrale il nemico era ben visibile: Jens Weidmann, leader della Bundesbank, è stato un avversario tanto implacabile quanto corretto. Il Palazzo è invece spesso teatro di guerre di logoramento. E un conto è il confronto in un consesso di banchieri centrali; un altro avere a che fare, in entrambi i rami del Parlamento, con un'orda di descamisados, questuanti, tiratori di giacchetta a vario titolo e ribaltonisti. Roba da mettere in crisi (forse) perfino l'algido aplomb draghiano. Sempre che l'emergenza non faccia riporre le sciarpe agli ultras della politica. E poi c'è la stampa. Non più solo quella economica, rispettosa dei ruoli, ma una comunità bipolare capace di passare dall'analisi puntuale al gossip più becero. Durante le conferenze stampa da leader Bce, Draghi è sempre apparso un po' ingessato.
Come si comporterà quando verrà circondato, magari per strada, da un nugolo di cronisti? Forzatamente, qualcosa nel suo stile di comunicazione dovrà cambiare. Ma una cosa è certa: comunque vada, dalla sua bocca non usciranno mai gaffe. Su quelle ha il copyright Toninelli. E Christine Lagarde (foto).
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