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La strategia interventista di Donald e le incertezze che agitano il mondo

Aveva promesso di non essere il poliziotto del mondo, ma tra Siria e Nord Corea il tycoon non sta in disparte. E apre molti fronti

La strategia interventista di Donald e le incertezze che agitano il mondo

Una sola cosa è certa: Donald Trump, il presidente americano che aveva annunciato che l'America sarebbe rimasta fuori dai Paesi in cui non aveva interessi specifici e non intendeva più fare il poliziotto del mondo si è trasformato, nel giro di tre mesi, in uno zelante interventista, aprendo quasi contemporaneamente due crisi esplosive: quella con la Siria e i suoi alleati Russia e Iran e quella, annosa ma finora sottotono, con la Corea del Nord. La situazione è resa più confusa dalle contraddizioni tra le dichiarazioni dello stesso presidente e quelle dei suoi più stretti collaboratori, in particolare il segretario di Stato Tillerson e l'ambasciatrice all'Onu Nikki Haley. Per quanto riguarda la Siria dopo il lancio di 59 Tomahawk per punire Assad di avere usato armi chimiche contro i civili, Trump non ha più proferito parola: nessuno perciò sa con certezza se come molti ritengono - intendeva compiere solo un gesto dimostrativo per differenziarsi da Obama e ottenere un miglioramento del suo tasso di gradimento presso l'elettorato, o se dobbiamo prepararci a una escalation che ha come obbiettivo finale la rimozione del dittatore, con cui, appena 48 ore prima, aveva detto di poter convivere; Tillerson e la Haley, al contrario, hanno assunto posizioni più impegnative e perfino inquietanti, con il Segretario di Stato che, proprio durante la sua sosta in Italia sulla strada di Mosca, ha detto che «tutti coloro che commettono crimini contro innocenti in qualsiasi parte del mondo saranno puniti». Il portavoce Spicer ha messo il veto anche alle barrel bombs, barili pieni di esplosivo, di cui 495 sono state sganciate dal regime di Damasco nel solo mese di marzo. La Haley ha aggiunto perentoriamente che «ora Assad deve andarsene».

Naturalmente, se davvero avesse rovesciato le sue priorità e anteposto la cacciata di Assad alla lotta contro l'Isis (cosa tutto sommato improbabile, e anche molto pericolosa per il vuoto creato), l'America dovrebbe fare i conti con la Russia, che nega perfino il possesso di armi nucleari da parte del rais, ne prevede al contrario l'uso da parte dei ribelli e ha addirittura paragonato il lancio dei Tomahawk alla guerra di Bush contro l'Irak. Anche qui, è stato Tillerson paradossalmente sospettato dai democratici di essere troppo amico di Putin ad andare all'attacco, accusando Mosca di «incompetenza» per non avere impedito l'uso del sarin. Nel giro del Dipartimento di Stato si ritiene che Putin stia «testando» le reali intenzioni di Trump nei suoi confronti, con piccole provocazioni come la ripresa delle ostilità in Ucraina, il riconoscimento dei passaporti emessi dalle province del Donbass, l'incorporazione russa delle milizie dell'Ossezia del Sud nominalmente ancora georgiana, l'appoggio al generale libico Haftar contro il governo di Tripoli riconosciuto dall'Onu e più grave di tutti se ha ragione il generale Scaparrotti, comandante delle forze Usa in Europa con l'inizio di forniture belliche ai talebani. Anche per l'opposizione degli europei, Tillerson non ha richiesto nuove sanzioni contro il Cremlino e la sua visita a Mosca ha senz'altro lo scopo di allentare le tensioni e magari a convincere Putin a «sganciarsi» da Assad, ma intanto il grande riavvicinamento Usa-Russia che era nelle intenzioni di Trump è sfumato.

Intanto si è aperto uno scontro con la Corea del Nord, tanto più inquietante per l'imprevedibilità del giovane Kim Jong-un. Trump aveva detto fin dall'inizio che, se la Cina non provvedeva a imbrigliare la corsa all'arma nucleare di Pyongyang applicando le sanzioni, l'America ci avrebbe pensato da sola; e dopo l'esito inconcludente dell'incontro con il presidente Xi, non solo Tillerson lo ha ribadito, ma per dimostrare che fa sul serio Washington ha diretto verso le acque coreane la portaerei Vinson. La reazione di Pyongyang è stata assai più violenta del previsto: il regime ha definito la decisione foriera di «catastrofiche conseguenze» e soprattutto ha affermato per la prima volta - che il lancio di missili contro la Siria giustificherebbe l'uso della bomba atomica, di cui Kim possiede già una ventina di esemplari. Trump ha subito risposto per le rime. Con ogni probabilità, nessuna delle due parti intende scatenare una guerra atomica, ma nel clima di estrema tensione che si è creato potrebbe bastare un incidente per provocarla.

Pur animato da buone intenzioni, Trump ha finito con il rendere il mondo più pericoloso.

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