
N on si uccidono così anche gli chef?
La morte di Andrea Zamperoni, il capocuoco di uno dei ristoranti newyorkesi di Arrigo Cipriani, l'inventore dell'Harry's Bar, fa riflettere su una professione - quella di chi spignatta - che negli ultimi anni ha dato alla cronaca nera un'impressionante mole di materiale. La Spoon River dei cuochi uccisi oppure suicidi oppure chissà è più lunga di un menu degustazione del Noma.
Di Andrea tutti dicono, ora, che era un bravo ragazzo. E, a parte il fatto che questo si dice sempre di tutti, a posteriori, che cosa si intende ohibò per bravo ragazzo? E soprattutto, uno chef che lavora in un ristorante di un brand nevralgico in uno dei posti nevralgici di una delle città più nevralgiche del mondo, può essere un bravo ragazzo? E deve esserlo?
Gli chef, e noi ne conosciamo molti - alcuni bene, la gran parte per come essi stessi decidono di raccontarsi - sono tutti fondamentalmente pazzi (oddìo, e se Bottura e soci facessero una class action per querelarmi?). Lo sono perché è da pazzi affrontare un lavoro che ha una forte componente creativa ma impone ritmi fordianamente alienanti. Che poi basta non dico un critico umorale ma anche solo un troll su Tripadvisor per rovinar loro se non la fama almeno la giornata.
Non sappiamo che cosa il povero Andrea ci facesse in quel sordido ostello pare famoso per la droga, il Kamway Lodge, né come siano andate le cose.
E non vogliamo fare ipotesi che sarebbero irrispettosi per un giovane che ha finito la sua vita sotto un lenzuolo bianco come una divisa da chef. Ma questo è il mondo della cucina, alta e bassa. Un territorio dove i «bravi ragazzi» non esistono. Quelli, semmai, fanno i commercialisti.