Collaborazione o sottomissione? La grande incognita nei rapporti con il gigante cinese è tutta qui. I primi a scoprirlo, agli inizi del 2000, sono i paesi africani. Per il Continente Nero non sono anni facili. Europa e Stati Uniti, sdegnati per la voracità con cui i dittatori africani hanno divorato miliardi di aiuti, hanno deciso di chiudere i rubinetti. Ma a dar loro il cambio arriva Pechino. Solo nella prima fase di penetrazione, tra il 2000 e il 2010, la Cina dispensa 67 miliardi di dollari ovvero 12 in più rispetto alla Banca Mondiale.
Per un po' di tempo molti dei leader africani s'illudono di esser alle prese con un filantropo più generoso e sventato rispetto a quello occidentale. Anche perché a differenza di Usa e Unione Europea, la Cina non pretende in cambio né il rispetto della democrazia, e nemmeno quello dei diritti umani. L'unica contropartita è quella che, a prima vista, sembra una comoda fideiussione sulle proprie materie prime.
Così, alla fine del 2016, la Cina controlla qualcosa come 3mila progetti in 36 paesi africani tra cui 9 porti, 14 aeroporti, 34 centrali elettriche, 6mila chilometri di strade ferrate e 4500 di autostrade. Progetti destinati ad allargarsi vista la recente promessa del presidente Xi Jinping d'investire altri 60 miliardi di capitali a fronte dei 54 promessi all'Africa dall'Unione Europea. Ma dietro l'imponenza degli investimenti si cela l'emergere del neo colonialismo cinese e la rovinosa sottomissione dell'Africa. L'algoritmo della fregatura è nascosto nella formula R4I (Resources for infrastructure loans) ovvero «risorse in cambio di crediti per infrastrutture». Convinti di barattare benessere e comodità in cambio di una modesta quota di risorse i governi africani si ritrovano a far i conti con un debito che li rende politicamente ed economicamente sottomessi a Pechino per decenni.
Una sottomissione che oltretutto non produce neanche lavoro vista l'abitudine di Pechino di esportare non solo i finanziamenti, ma anche la manodopera, rigorosamente cinese, necessaria a realizzarli. Così oltre a dover mettere a disposizione di Pechino tutte le risorse naturali dei prossimi decenni molti paesi africani si ritrovano a dovergli garantire un implicita sudditanza politica e militare. Una sudditanza ormai evidente in seno all'Onu dove, stando all'Economist, paesi come Angola, Sudan, Ghana, Congo e Sudan seguono le indicazioni di voto cinesi con una frequenza che varia tra l'83% e il 93% per cento. E dietro la sudditanza politica avanza quella militare. In Sudan dove la guerra tra il nord e il sud mette a rischio i pozzi petroliferi in mano cinese Pechino ha dispiegato nel 2015 il suo primo «contingente di pace». Una missione seguita dall'invio di 2400 caschi blu messi a disposizione di sette missioni Onu in Africa.
A Gibuti dove Pechino finanzia ferrovie e acquedotti è sorta invece nel 2017 la prima base
navale cinese. Una base grazie alla quale Pechino controlla lo stretto di Bab el Mandeb ovvero la porta d'accesso al Mar Rosso e allo stretto di Suez da cui passa, ogni anno, dal 12 al 20 per cento dei commerci mondiali.
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