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Gli studenti italiani "respinti" da Londra. L'Italia non sa promuovere i suoi atenei

I nostri titoli di studio non valgono per lavorare in Inghilterra. Ma dalla Bocconi alla Normale, le università sono all'altezza

Gli studenti italiani "respinti" da Londra. L'Italia non sa promuovere i suoi atenei

Ma non eravamo conosciuti al mondo perché siamo tra i primi esportatori di cervelli? E quanto si fregiano i nostri docenti universitari e ricercatori scientifici di essere invitati dagli atenei internazionali per conferenze e didattica di alto livello formativo? Invece sembra che non sia proprio così. La Gran Bretagna dice che i nostri studenti non appartengono al High Potenzial Individual e che, quindi, i loro titoli di studio non valgono per andare a lavorare in Inghilterra. Bocciati anche i professori.

Il problema è semplice: o noi ci siamo sempre sbagliati sulla qualità della nostra formazione accademica e sulla bravura dei nostri docenti, oppure la cantonata l'hanno presa gli inglesi. Potrebbe esserci una terza ipotesi, quella «del nascondino», in cui noi siamo grandi maestri. In un mondo globalizzato, la comunicazione è una parte essenziale di qualunque lavoro importante s'intenda sviluppare: si può essere i più bravi, ma se non si fa sapere quello che viene prodotto, a tutti i livelli, da quelli intellettuali a quelli materiali, nessuno sa dell'esistenza del lavoro che si svolge. Questo significa che la comunicazione è in grado di ingigantire un nano e di tacere sull'esistenza di un gigante.

Il Politecnico di Milano e di Torino non sono all'altezza di una formazione competitiva con altre sedi in cui si insegnano discipline analoghe? La Bocconi? I centri di cura e di ricerca scientifica come lo Ieo, il Sacco, Il San Raffaele, l'Humanitas, non valgono? Le facoltà umanistiche come la Normale di Pisa o La Sapienza di Roma che, tra l'altro, l'ho vista recentemente nominata in una graduatoria internazionale: queste non sono degne di essere menzionate nella lista gradita alla Gran Bretagna? Si potrebbe liquidare la presa di posizione inglese, osservando che la perfida Albione in realtà ha, come da antica data, molta invidia per l'italica cultura che possiede una tradizione di gran lunga più importante della sua. Purtroppo non ci si può accontentare di questa pur vera consolazione: prendiamoci allora la sberla della Gran Bretagna alla cultura e alla formazione accademica italiana come un insegnamento per migliorarci. Per prima cosa si dovrebbe credere di più nella qualità del nostro lavoro; in secondo luogo, impariamo a comunicarlo. Noi tendiamo a non valorizzare, come si dovrebbe, il nostro lavoro, e poi facciamo un peccato di presunzione disinteressandoci della sua comunicazione. Il risultato è catastrofico, e la lista di proscrizione inglese ce lo conferma spietatamente.

Qualcosa del genere accade con i nostri beni artistici: pochissima valorizzazione di opere d'arte d'inestimabile valore, e ci accontentiamo di sapere con una semplice e rapida somma che siamo il Paese al mondo col maggior numero di beni artistici. Da qualche tempo si è presa coscienza di questa situazione paradossale, e s'incomincia a lavorare scientificamente per una comunicazione che sia all'altezza del nostro patrimonio artistico. Allo stesso modo, si dovrebbe procedere per la valorizzazione della nostra ricerca scientifica e della formazione universitaria. Non possono bastare le rapide informazioni nei telegiornali che questo o quel ricercatore da noi formatosi, è stato insignito di un premio prestigioso, lavorando in una importante università straniera.

Spesso ci si rammarica per la fuga dei cervelli italiani: certamente essi dovrebbero rappresentare un patrimonio della nostra cultura da trattenere, ma, consideriamoli, per adesso, la migliore comunicazione della qualità della nostra ricerca e formazione, in assenza di altre forme che illustrino cosa siamo in grado di fare.

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