L'inciucio c'è, ed è in stadio avanzato. Ma - come «l'amore che non osa pronunciare il proprio nome», descritto con accenti struggenti da Oscar Wilde - non si può dire.
Ecco dunque fiorire le metafore e gli eufemismi: «Non faremo alleanze ma patti civici», dice uno dei due aspiranti al connubio, Gigino Di Maio. Mentre Nicola Zingaretti evoca la necessità di «aprire un processo, di non far scontrare le differenze, ma ricercare nel merito delle cose dei punti di incontro». Cortine di parole che delineano, senza dirlo apertamente, la direzione di marcia di Pd e Cinque Stelle verso un'intesa che guardi ben oltre le ragioni contingenti che hanno fatto nascere il Conte due. L'obiettivo è un rapporto «strategico», come lo descrive il dem Goffredo Bettini, appassionato teorico dell'amplesso coi grillini, che porti ad un fronte comune alle prossime politiche. Il più entusiasta è Beppe Grillo: bisogna «vincere vecchie inimicizie creando altrettante imprevedibili nuove consapevolezze», si eccita in uno dei suoi consueti e un po' deliranti proclami. Ma il fondatore del vaffa ha capito meglio di tutti una cosa: il Pd, una volta liberatosi di Renzi, è preda facilissima dell'egemonia culturale grillina, e non ha una propria agenda riformista da imporre: quindi - pur di stare al governo e di allearsi alle regionali - dice sì a tutte le istanze M5s: taglio dei parlamentari o candidati «civici» che siano. Quindi può essere progressivamente assorbito in un contenitore comune a cultura prevalente grillina.
Se per il Pd è fondamentale non perdere le regioni rosse, per la Casaleggio invece è essenziale uscire dall'irrilevanza sul territorio, e aprirsi anche quel redditizio mercato politico. Nei rari casi in cui M5s ha vinto città anche importanti, ha dimostrato una desolante mancanza di classe dirigente e di capacità amministrative. Il Pd, che quel personale politico lo ha, può diventare un utile veicolo per entrare nel business senza esporsi troppo. Ma «abbiamo bisogno di tempo per far digerire l'alleanza i nostri», ha spiegato Di Maio a Zingaretti nella cena di qualche sera fa.
Ieri il leader Pd ha capito di aver fatto un passo falso, con quella incauta benedizione alla Raggi. Per mettere a tacere un malumore sempre più forte nel Pd (che potrebbe tracimare nella Direzione di oggi) ha fatto marcia indietro: «Basta polemiche, è tutto inventato: il Pd è all'opposizione di questa amministrazione e lavora per creare un'alternativa». Ma ormai è tardi: la Raggi si aggrappa alla mano tesa cinguettando di «sinergie» col Pd (che già esistono nella Regione Lazio di Zingaretti), e i Cinque Stelle, che nella Capitale rischiano una batosta clamorosa dopo cinque devastanti anni di Raggi, sarebbero ben lieti di salvarsi a spese dei dem. Imponendo però un candidato loro, ovviamente: «E voglio vedere come reagisce il Pd se gli propongono un Dibba o roba simile», ironizza l'ex candidato sindaco Roberto Giachetti, ora in Italia Viva. Che aggiunge: «Trovo suicida che il Pd si agganci al fallimento finale della Raggi, riconosciuto da tutti i romani.
E mi spaventa molto il processo di «grillizzazione» del Pd: dal segnale inquietante delle sanzioni ai candidati in Umbria ai silenzi sulla linea forcaiola sulla giustizia». La conclusione è amara e sarcastica: «Si sta tornando ai tempi della raffazzonata Unione e del Fronte anti-Salvini, visto che il Fronte anti-Berlusconi ha fatto un gran bene al centrosinistra... Auguri».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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