Visto che «chi non sa mentire non sa governare», come recita un proverbio cinese, Pechino provvede subito. La svalutazione dello yuan (1,9%) decisa martedì scorso doveva essere una misura «una tantum», ma appena 24 ore dopo arriva un'altra pillola avvelenata: la moneta nazionale viene deprezzata di un ulteriore 1,6%. Un uno-due micidiale per i mercati, già scossi martedì dalla prospettiva che si scateni una guerra delle valute su scala planetaria. Lo score degli indici è da brividi, a conferma che agosto può essere il più crudele dei mesi: Parigi ha lasciato sul terreno il 3,4%, Francoforte oltre il 3,2%, Milano il 2,9% e Londra l'1,4%. Il conto è salato, con 227 miliardi di capitalizzazione bruciati. Limita i danni Wall Street, giù dello 0,54% a un'ora dalla chiusura.
È un'ondata di pessimismo vicina al panico, una reazione di pancia che a molti analisti è parsa sproporzionata. C'è chi, per esempio, non ritiene giustificato l'allarme provocato dalla manovra di alleggerimento valutario. La stessa Standard&Poor's considera le azioni cinesi «sensate a livello economico» e, soprattutto, nega che rappresentino «l'inizio di una guerra valutaria o il tentativo di far ripartire la crescita». Il tasso di cambio, dice S&P, svolge un ruolo secondario sulle esportazioni rispetto alla domanda estera. Vale del resto la pena di ricordare che, rispetto a un anno fa, lo yuan vale almeno un 10% in più. Inutile dunque parlare di effetti sulla bilancia commerciale indotti dalla svalutazione: sono nulli. Il Giappone, del resto, ha visto qualche beneficio nei saldi tra import ed export solo dopo che lo yen era «dimagrito» del 35%.
I mercati, però, pur non avendo spesso la memoria lunga, ragionano sempre in prospettiva. E in questo caso sembrano mettere in conto il prevalere del pressing politico sulla banca centrale cinese a svalutare gradualmente, per una percentuale complessiva del 10%. Un'ipotesi verosimile, se l'intento è quello di evitare fughe di capitali e per non disincentivare l'utilizzo dello yuan nelle transazioni internazionali in un momento delicato per l'economia del Dragone. La produzione industriale, cresciuta appena del 6% in luglio, è lo specchio impietoso di un indebolimento complessivo che tocca i consumi fino ad arrivare alla Borsa.
Certo, il crollo di molti titoli viene giustificato con il prevedibile assottigliamento di ricavi e utili finora garantiti dal mercato cinese. Ma ciò che appare sproporzionato è un simile sprofondo, capace di mettere a soqquadro un mercato storicamente resistente come quello tedesco nonostante le esportazioni della Germania verso la Cina pesino per il 6% complessivo contro il 37% dell'Europa e il 9% degli Stati Uniti. «C'è un'abitudine all'atteggiamento - spiega Paolo Borzatta, direttore e senior partner di The European House Ambrosetti - per cui quando la Cina fa qualcosa è perché sotto stia per collassare o perché il sistema sia sul punto di implodere. Questa è sicuramente una manovra per rilanciare le esportazioni e l'economia, ma non è una mossa dettata dalla disperazione».
Di sicuro, è una manovra che la Federal Reserve vede come il fumo negli occhi: può avere «enormi implicazioni per l'economia mondiale», ha detto il governatore della Fed di New York, William Dudley.
Il contestuale apprezzamento del dollaro rischia infatti di legare le mani alla banca centrale Usa nel momento in cui sta per decidere quando alzare i tassi. Meno preoccupato appare invece l'Fmi, secondo cui si tratta di «un passo positivo», perché consentirà ai mercati di avere un maggiore ruolo nel determinare i tassi di cambio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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