«Non escluderei del tutto il ricorso a tassi negativi». Eccola, la presidente della Fed Janet Yellen, accarezzare l'idea di aderire al processo di clonazione delle politiche monetarie, mutuando l'esempio di Bce e Banca del Giappone. L'omologazione è molto trendy fra le banche centrali. E non per mancanza di idee, ma perché è con essa che si possono muovere le pedine valutarie.
I tassi sottozero dovrebbero, infatti, aiutare la svalutazione del cambio. Non sempre ci riescono. Di sicuro, sorreggono i Paesi molto indebitati come l'Italia, che beneficiano anche di quella deflazione contro cui Mario Draghi ha sguainato la durlindana del quantitative easing. Per ora, però, SuperMario sembra aver perso il duello contro i prezzi in freezer. L'inflazione, più anemica che mai, si sta facendo beffe di tutti gli alleggerimenti quantitativi, dei maxi-acquisti di bond, della liquidità regalata alle banche.
Insomma: lo sperato effetto di trasmissione tra le misure messe in campo dell'Eurotower e l'economia reale ancora non si è visto. I motivi? Tanti. Certo non aiuta l'eccesso di offerta che riguarda le materie prime, a cominciare dal petrolio, l'acciaio e altri beni industriali. Poi, va messa in conto la situazione del sistema del credito. La Bce, attraverso i tassi negativi, vorrebbe spingere le banche ad allargare i cordoni della borsa. Ovvero, a concedere più prestiti. Il problema è che gli istituti europei sono seduti sulla polveriera dei circa 1.000 miliardi di sofferenze, crediti il cui recupero è a rischio. E, a fronte anche dei vincoli patrimoniali sempre più stringenti che sono tenute a rispettare, sono riluttanti a pigiare sul pedale degli impieghi.
C'è poi un ulteriore problema, e riguarda la carenza di richieste di prestiti da parte delle imprese. In pratica, il cavallo non beve: spesso perché ha accumulato troppi debiti, spesso perché non vede, in prospettiva, un aumento duraturo della domanda. Così, il tasso super-scontato finisce per perdere ogni appeal.
Quanto alla domanda, se è fiacca la colpa è del generale impoverimento delle famiglie provocato a partire dal crac Lehman (più disoccupazione, più precarietà, meno sicurezze), essendo bizzarra la teoria secondo cui le spinte deflazionistiche inducono i privati a rinviare gli acquisti perché «i prezzi scenderanno ancora».
Se non si interviene sui salari, difficilmente tornerà la voglia di shopping. E in assenza di politiche fiscali più flessibili, gli sforzi della Bce non serviranno. Ma la nuova dose di austerity propinata alla Grecia è il segno che dagli errori non si vuole imparare nulla.
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