Garantisti sì, ma solo a casa propria. Gli altri, in galera. Soprattutto se gli altri erano - fino a due settimane fa - i compagni di partito.
La triste parabola dei fuoriusciti Pd capeggiati da Bersani e D'Alema si riassume in due nomi: Vasco Errani e Luca Lotti. Quando l'allora presidente della regione Emilia Romagna (nonché testa pensante della segreteria Bersani), venne indagato e poi rinviato a giudizio per il caso Terremerse, l'ex segretario lo difese a spada tratta, si oppose ad ogni idea di dimissioni e ricordò solenne che «un avviso di garanzia è solo un atto a tutela di un indagato». A Errani, Bersani volle pubblicamente esprimere «solidarietà e fiducia», dicendosi certo che «avrà sicuramente l'occasione per dimostrare l'inconsistenza delle accuse». E diede un mandato preciso al Pd emiliano: altro che dimettersi, «Errani deve comunque portare a termine il suo mandato: parlare di dimissioni è irresponsabile e destabilizzante, e non è neppure in buonafede», come spiegò il capogruppo in Regione dopo consultazioni al Nazareno.
Errani poi venne condannato, si dimise (e Matteo Renzi, nel frattempo diventato segretario, lo pregò di restare al suo posto), e infine venne assolto. E Bersani spiegò che - anche se lo avessero condannato - «persino nella valle di Giosafat, non avrei mai creduto alla sua scorrettezza».
Altri tempi. Ora, invece, per i quattro gatti che hanno seguito Pierluigi Bersani fuori dal Pd tutto è cambiato. Reclamano a gran voce le dimissioni di Lotti (che è solo indagato) per «tutelare l'immagine del governo», e presentano una mozione per ottenere che il premier gli tolga a scatola chiusa tutte le deleghe. Il loro portavoce Miguel Gotor, con mirabile sprezzo del ridicolo, argomenta: «Non c'è bisogno di attendere il lungo corso della giustizia per ricavare il convincimento che la vicenda Consip rivela uno stile di gestione del potere di carattere familistico». Chi se ne frega dei processi, insomma: Dp ha già emesso la sua sentenza, Lotti è colpevole per ragioni di «stile». E Gotor svicola così al parallelo sul caso Errani: «Lotti prenda esempio da Errani, farebbe un servizio all'Italia e alla dignità della politica». Peccato appunto che Errani, blindato dal capo di Gotor in nome di un garantismo rapidamente dimenticato, non si dimise affatto per l'avviso di garanzia, né per il rinvio a giudizio: si dimise nel 2014 dopo la condanna in secondo grado. Ma quel che vale per Errani non vale per Lotti, nel magico mondo bersaniano. E del resto la stessa musica viene suonata un po' più a sinistra, lì dove i vendoliani che ora invocano la sfiducia e le dimissioni di Lotti non aprirono bocca quando Nichi Vendola fu indagato e rinviato a giudizio per disastro ambientale. Ma si sa, quel che vale per sé stessi non deve valere per gli altri.
Curioso però che i bersanian-dalemiani, tanto accaniti nell'inseguire Lotti coi forconi, oggi annuncino di voler uscire dall'aula quando si voterà la mozione di sfiducia M5s. Ma c'è da capirli: se per un tragico pasticcio la mozione dovesse passare, rischierebbero di ritrovarsi disoccupati anzitempo. Meglio evitare, coi tempi che corrono. Anche perché il futuro è molto incerto: Bersani, per rimediare un po' di posti in lista, ha provato a salire sul carro di Pisapia, proponendogli tentatore un «ticket» con lo smagliante Roberto Speranza.
Ma ieri, dal pranzo (chiuso ai bersaniani) tra l'ex sindaco di Milano e alcuni ex Sel, è trapelato che - poco sorprendentemente - Pisapia non ci pensa per niente: «Ma quale ticket, l'ipotesi non esiste», spiegano i commensali.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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