Cronache

"Taiwan è cinese": minacce ad Amazon e Apple

Avvertimento a 66 compagnie: "Multe e blocchi se non la definite come parte della Cina"

"Taiwan è cinese": minacce ad Amazon e Apple

Sessantasei compagnie internazionali tra cui colossi come Amazon, Apple, Siemens e Nike sono finite nel mirino di Pechino. Se non si adegueranno sui loro siti a definire come parte della Cina non solo Hong Kong e Macao (che sono già sotto il controllo della Cina comunista) ma anche Taiwan «dovrebbero subire ritorsioni che vanno da multe a blocchi provvisori o definitivi dei siti stessi. Lo si legge in un articolo pubblicato su Legal Daily a firma di un ricercatore dell'Accademia Cinese di Scienze Sociali.

Il problema è che Taiwan è di fatto uno Stato indipendente, con solide istituzioni democratiche e un forte esercito armato dagli americani. Da decenni Pechino mira a una riunificazione forzosa, ma non ne ha mai avuto la capacità militare. Si è così rassegnata ad attendere tempi più favorevoli e nel frattempo le relazioni tra le «due Cine» si svolgono in un complicatissimo contesto definito «politica dell'Unica Cina», in base al quale Pechino e Taipei (e quasi tutto il resto del mondo) riconoscono che di Cina ce n'è una sola e che prima o poi una riunificazione avverrà, salvo divergere profondamente sulla sua natura.

Lo scorso 2 gennaio il presidente cinese Xi Jinping si è rivolto ai «compatrioti di Taiwan» con un discorso in cui ha ricordato loro la sua visione del futuro dell'unica Cina: si era detto desideroso di discutere di «unificazione pacifica» con qualsiasi partito taiwanese disponibile, minacciando però il ricorso alla forza per ottenere comunque l'inevitabile obiettivo e dicendosi certo che gli indipendentisti della «provincia ribelle» non siano che una piccola minoranza sostenuta da forze straniere. Affermazione falsa, se si considera che l'attuale presidente taiwanese Tsai Ing-web è espressione di un partito secessionista che nel 2016 ha vinto regolari elezioni. Alle minacce di Xi aveva reagito la Casa Bianca, ricordando che Washington sostiene il dialogo Pechino-Taipei ma che si oppone «a qualsiasi minaccia per costringere il popolo di Taiwan e le sue istituzioni democratiche ad agire contro la loro volontà».

Le pressioni sulle compagnie straniere fanno dunque parte di una precisa strategia di Xi. Già nello scorso aprile, l'ente dell'aviazione civile cinese aveva ingiunto a 36 compagnie aeree straniere di rimuovere dai loro siti ogni riferimento a Hong Kong, Macao e Taiwan come Paesi separati dalla Cina, e gran parte si erano piegate.

Ieri il governo di Taipei ha denunciato «la maligna intenzione di Pechino di sminuire la nostra sovranità nazionale» e ha chiesto alla comunità internazionale di opporsi a questo atto di prepotenza.

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