«Queste sono le nostre elezioni, non quelle cinesi. Se Pechino pretende di interferire nelle elezioni democratiche di altri Paesi, cominci a rendere democratiche le proprie». Joseph Wu, il ministro degli Esteri di Taiwan, è abituato alle pressioni cinesi e non è uno che le mandi a dire. Oggi i cittadini della piccola Cina nazionalista (24 milioni di abitanti, una formica rispetto all'elefante comunista che ne ha 1,4 miliardi) vanno alle urne per scegliersi il presidente della Repubblica e il nuovo Parlamento. Liberamente, come usa da noi in Occidente, e come tanto vorrebbero fare a Hong Kong. In ballo, come e più del solito, c'è il destino di questo piccolo Stato coraggioso che sfida la pretesa cinese di negargli perfino l'esistenza, in quanto lo considera solo una provincia ribelle dell'unica Cina, quella comunista. A contendersi la presidenza ci sono il capo di Stato uscente, la signora Tsai Ing-wen, e Han Kuo-yu, il candidato del partito Kuomintang, un tempo baluardo dell'indipendenza di Taiwan da Pechino e oggi fautore del compromesso con Xi Jinping per salvaguardare la ricchezza dell'isola.
Il presidente cinese ha minacciato che se l'indipendentista Tsai sarà rieletta considererà ogni opzione, inclusa quella estrema di annettere a forza l'isola ribelle. Ma il risultato elettorale pare scontato: la signora Tsai vincerà alla grande, e tutto a causa di Hong Kong. Fino a un anno fa, i taiwanesi sembravano propensi a cambiare cavallo e ad affidarsi al Kuomintang, e questo sia per ragioni economiche (la «piccola tigre» taiwanese è un po' in affanno) sia nel timore che troppa aggressività verso Pechino non fosse poi una buona idea. Alle elezioni locali di un anno fa l'opposizione aveva trionfato, e il destino delle elezioni del 2020 pareva già segnato. Poi è cominciata la rivolta di Hong Kong ed è arrivata la sua repressione, e i taiwanesi hanno dovuto constatare che la Cina comunista è quello che è, e non quello che a loro piacerebbe che fosse: e si sono ricordati che, proprio come dice Tsai Ing-wen, libertà civili e democrazia vengono prima della crescita economica. L'ultimo sondaggio, che risale a dieci giorni fa, dava alla presidente uscente un vantaggio incolmabile di 30 punti percentuali.
Cosa succederà a partire da oggi, quando il candidato preferito di Pechino sarà stato umiliato? Difficile che lo scornato Xi opti per un'azione militare: Taiwan è armata fino ai denti dagli americani, che la considerano un alleato prezioso in Estremo Oriente. Il presidente cinese ordinerà più probabilmente un brusco aumento delle pressioni, riducendo i contatti economici privilegiati con la Cina che tanto benessere assicurano a Taiwan, limitando ancor più di oggi i flussi turistici cinesi verso l'isola (altra grande fonte di introiti) e lavorando per privare Taipei dell'ultima manciata di Paesi al mondo che ancora ne riconoscono la sovranità.
A Taipei sono preparati. Sanno che dopo Hong Kong, dove già oggi il 30% dei cittadini soffre di stress paragonabili a quelli di chi vive in zona di guerra, toccherà a loro di difendere senza paura la loro preziosa libertà.
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