Non si esce in preda all'ottimismo dopo un incontro con Uzi Rabi, direttore del Centro studi mediorientali e africani «Moshe Dayan» e ricercatore presso il Centro studi iraniani all'Università di Tel Aviv. La situazione in Medio Oriente è pericolosamente avviata verso una moltiplicazione di conflitti in grado di sconfinare dall'ambito regionale, dice il professore a un gruppo di giornalisti che ha incontrato a Milano, e in mancanza di una gestione adeguata e competente da parte delle potenze occidentali che a suo avviso non c'è e non ci sarà, «il peggio dovrà ancora venire».
Nelle ore in cui si sta definendo un accordo sul nucleare iraniano di importanza storica, è inevitabile che Teheran sia al centro della conversazione. «L'Iran ha già vinto - scandisce convinto Rabi -, loro si sono dimostrati i più abili giocatori di questa complessa partita. L'accordo arriverà e siccome il regime islamico continuerà ad arricchire uranio presso suoi impianti che sfuggono ai controlli, dovremo prima o poi convivere con un Iran potenza nucleare. Questo accrescerà il suo ruolo nella regione e avrà come conseguenza le inevitabili reazioni dei Paesi sunniti a lui contrapposti, Arabia Saudita in testa».
Rabi, da profondo conoscitore del Medio Oriente, diffida di quanti cercano soluzioni «tradizionali» ai suoi incancreniti problemi. «Questa ragione non funziona politicamente su basi razionali - sostiene -. Per esempio, io non penso che l'Iran oserebbe attaccare Israele, ma noi dobbiamo sempre essere pronti al peggio. Temo peraltro che sia troppo tardi per una nostra azione militare tesa a fermare l'Iran atomico: tra l'altro, la fretta che Teheran sta dimostrando di chiudere un accordo a Losanna non si spiega soltanto col fatto che hanno capito che possono più facilmente raggiungere i loro obiettivi con un'intesa piuttosto che senza, ma con la volontà di spingere Israele in un angolo. A quel punto, infatti, il suo sarebbe un attacco contro il mondo intero».
Il professor Rabi passa quindi a descrivere un Medio Oriente sempre più complesso e non descrivibile né gestibile «secondo le categorie ormai superate del XX secolo». Una realtà da cui tra l'altro gli Stati Uniti si dimostrano crescentemente distaccati, fino al punto di deludere in modo urticante i loro alleati di sempre, dall'Egitto all'Arabia Saudita. E in cui Stati come la Siria e l'Iraq (ma anche la Libia, più a ovest) si disgregano ed emergono nuovi aggressivi attori pseudostatali come l'Isis. Viene a questo punto da chiedere cosa dovrebbe fare Israele in questo nuovo e preoccupante contesto, e Rabi non si tira indietro: «Il mondo, e meno che mai il Medio Oriente, non tornerà quello di prima. Nemmeno un cambio di guida politica alla Casa Bianca ci garantirebbe un'attenzione più benevola di quella che ci concede Obama: perché i cambiamenti sono di misura tale che superano quella degli Stati Uniti. Israele dovrà dunque essere molto pragmatico e trovare intese, non parlo di alleanze, contro nemici comuni (l'Iran e Isis, nda) con Paesi come l'Egitto e l'Arabia Saudita. Considerato che in questo XXI secolo le mappe sono ormai irreversibilmente stravolte, penso che un interessante interlocutore per Israele potrà essere anche un Kurdistan indipendente o autonomo all'interno di una federazione irachena».
Due considerazioni finali sullo Stato islamico. Secondo Rabi è un pericolo da disinnescare «prima che si accaparri la prossima generazione».
Serve «un piano preciso del mondo libero, un lavoro d'intelligence coordinato e mirato. Senza dimenticare che in Libia è reale il rischio che Isis si procuri armi non convenzionali pericolosissime: sono abbastanza fanatici da usarle ovunque».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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