Qualche giorno fa Claudio Lotito ha detto: «Non mi sentirete parlare per molto tempo. Anzi sapete che c'è? Forse non parlo proprio più». Hanno parlato gli altri, suo malgrado. I magistrati. Anzi stanno parlando di lui che parla al telefono. È uno di quei paradossi che, quando parlava, gli piacevano: «Una situazione kafkiana», direbbe. Ed effettivamente lo disse già una volta, quando nel 2006 si trovò coinvolto in Calciopoli. «Sono tra coloro che son sospesi», aggiunse.
Come oggi, forse meno di oggi, perché il presidente della Lazio è indagato per tentata estorsione. Non parlando, adesso, ha solo recapitato un comunicato: «I miei accusatori finiranno per diventate accusati». È una dichiarazione perfetta per lui che è diventato personaggio per ciò che ha fatto da presidente della Lazio, da dirigente in Lega e Federcalcio, e per ciò che ha detto. Ovvero le sparate mescolate alle citazioni in latino, i giochi di parole, le mezze frasi e le frasi intere. Cominciò così: «'Sto mondo va cambiato. Nel pallone ho trovato più prenditori che imprenditori, più magnager che manager. Quando sono arrivato alla Lazio, giravano cifre folli: il presidente guadagnava cinquecentomila euro, l'amministratore un milione, l'allenatore s'era fatto aumentare l'ingaggio fino a 3,5 milioni». Era il 2004, anno in cui comparve quasi dal nulla. Io «so' avulso» dal sistema, diceva. Avulso in effetti è un termine che avrebbe usato diverse volte e in diverse circostanze. Vero, comunque. Era così avulso che in quel periodo, ovvero quando comparve sulla scena come possibile padrone della Lazio che stava fallendo dopo il crac di Sergio Cragnotti, il gioco dei giornali e del mondo del pallone era scoprire chi fosse. Il ritratto era più o meno questo: «Il genero di Mezzaroma». Imprenditore. Nel 1987 aveva fondato la prima impresa di pulizia, la Snam. Poi altre tre: la Linda, l'Aurora e la Bonadea. Più una società di vigilanza. Appalti e milioni. Regione, provincia, comune, banche, ospedali, Asl. Però niente fotografie, né apparizioni pubbliche. Dopo le prime informazioni arrivarono le prime maldicenze. I maligni erano verdi, diessini, rifondaroli. Sospettavano. Dicevano che era proprio difficile che vincesse tutte le gare pubbliche. Tiravano fuori il complotto: l'amicizia con l'allora governatore Francesco Storace. Prima che lo facesse Lotito, arrivò la replica del governatore del Lazio: «Il momento di maggiore espansione del fatturato del gruppo Lotito con le aziende della regione è tra il 1995 e il 2000, quando governava il centrosinistra».
Mister Claudio diventò presidente della Lazio il 19 luglio 2004. Versò 21 milioni di euro e ottenne di spalmare i debiti della precedente gestione in molti anni. Fu festeggiato come un salvatore. Il sistema aveva appena integrato l'avulso, parola che sarebbe diventata presto un intercalare: «Questa è una situazione avulsa dal resto», oppure «una volta lo sport era quasi avulso dal carattere economico, oggi è un mercimonio».
Entrò come il moralizzatore del pallone: meno soldi e meno compromessi. Il che per diverso tempo gli ha fatto conquistare il nomignolo di «Lotirchio». Il motivo era il mix delle due cose: aveva deciso che nel calcio non si dovessero spendere cifre pazzesche né per acquistare i giocatori, né per i loro stipendi e che bisognasse tagliare ogni ponte con le curve. Il combinato disposto è stata la causa della guerra prima latente poi apertissima con i tifosi della Lazio che l'accusavano di non spendere per il club. Lui, a volte in silenzio a volte a voce alta, diceva che la verità era un'altra: «S'incazzano perché non hanno più una lira da me». Vere entrambe le cose, probabilmente. Vero soprattutto che Lotito il moralizzatore è diventato in fretta personaggio. Le parole, appunto. «Bisognerebbe procedere a una rivoluzione poetica nel mondo del pallone. Il calcio dovrebbe interpretare Manzoni. Il romanzo, per Manzoni, doveva essere utile, come scopo, cioè deve insegnare qualcosa. E vero, come soggetto. E infine interessante, come mezzo: non deve annoiare. Il calcio dovrebbe attenersi agli stessi indirizzi». Poi pure il fanciullino di Giovanni Pascoli: «Dobbiamo valorizzare il bambino che è in noi: dobbiamo essere spontanei, trasparenti, nell'amministrare il calcio. Io sono un volitivo e combattivo. E vorrei citarle Dante… quei versi immortali: “Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”. Canto ventiseiesimo dell' Inferno . Noi abbiamo una forte responsabilità, l'obbligo di promuovere un'azione di insegnamento civile. E di liquidare il paradigma negativo, il dispendio dei soldi, l'edonismo. Lo sport dev'essere un elemento catartico com'era in Grecia». Cita a memoria, sempre. L'accento e la cadenza romane fanno risultare tutto un po' grottesco, eppure lui ricorda con orgoglio la maturità classica e la laurea in pedagogia.
Le parole allora non sono un caso, mai. E Lotito è diventato quello che dice cose giuste nel modo sbagliato. La telefonata per cui oggi è sotto inchiesta è diventata celebre perché è quella in cui dice che Carpi e Frosinone non dovrebbero andare in A: «Se me porti su il Carpi... Una può salì... Se mi porti squadre che non valgono un cazzo, noi fra due o tre anni non c'abbiamo più una lira. Perché io quando vado a vendere i diritti televisivi - che abbiamo portato a 1,2 miliardi grazie alla mia bravura, sono riuscito a mettere d'accordo Sky e Mediaset, in dieci anni mai nessuno - fra tre anni se c'abbiamo Latina, Frosinone, chi cazzo li compra i diritti? Non sanno manco che esiste, Frosinone. Il Carpi...». Un problema di modi, più che di contenuti. Un problema grande, però. Il suo problema. Perché per molti, Lotito è diventato il Richelieu che si muove nell'ombra curando i suoi interessi. È accaduto l'anno scorso quando ha imposto lui la candidatura di Tavecchio e l'ha portato alla presidenza della Figc nonostante la frase su «Optì Pobà». Altro problema di parole, pure quello. Dicono: Lotito che muove le fila, che briga, che trova i voti e plasma i consensi: è diventato il simbolo di un mondo che non vuole cambiare e il nemico di chi invece vorrebbe cambiarlo. Paradosso anche questo, visto con che proclami era entrato nel calcio. Oggi è amico di molti e nemico di altrettanti. Simbolo del potere, al di là di quello che realmente rappresenta. Il Papa del pallone hanno detto e scritto, lui s'è offeso, motivo per cui non vuole parlare più. «Parla il campo», ha detto nella stessa occasione in cui ha annunciato il silenzio prossimo futuro.
E il campo ha detto che ha avuto ragione: ha portato la Lazio in Champions League, quando nessuno lo pronosticava, ha comprato e ha investito su Felipe Anderson, diventato il giocatore più impressionante della serie A nell'ultima stagione. Ha vinto lui, Claudio, sul campo. Non con le parole, alle quali ha imparato a tenere meno, evidentemente. «Le chiacchiere stanno a zero», è un'altra frase del suo repertorio. Adesso è la preferita.
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