Quella toga davanti a un altro figlio

Mestiere difficile, essere giudice, e mestiere difficile, essere umani

Quella toga davanti a un altro figlio
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Sapere di non sapere è il massimo che ci è consentito, soprattutto quando ciò che pretendessimo di sapere, noi, è che cosa può passare nella mente di un giudice che abbia perso il figlio 22enne per suicidio, e questo nelle stesse ore in cui avrebbe dovuto giudicare, quel giudice, altri giovani come accusati di stupro; giudicare, lui, che cosa sia passato nella mente di quattro ragazzi e due ragazze in una notte in Sardegna del 2019, giudicarlo mentre non ha potuto neanche appieno comprendere, questo giudice, questo padre, questo essere umano, che cosa sia passato nella mente di suo figlio mentre si gettava tra i binari della metro di Roma. Tutto questo è semplicemente spaventoso, sappiamo solo questo, sappiamo di non sapere, e sappiamo che fatichiamo, ora, anche scrivendo, a esprimere il dovuto rispetto per tutto questo. Fatichiamo già meno, per non smentirci, a fare nostro lo sdegno di un avvocato (ieri) dopo il tentativo di far spostare l'udienza della sentenza per Ciro Grillo di un giorno o due al massimo: sarebbe stata questa la quantificazione del lutto. Mestiere difficile, essere giudice, e mestiere difficile, essere umani. Su questo Leonardo Sciascia scrisse parole definitive già nel 1986, quando indicò la scelta della professione di giudicare come qualcosa che dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe, cioè, consistere nell'accedere al giudicare come a una dolorosa necessità, nell'assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all'inquietudine, qualcosa che faccia introvertire il potere di giudicare e lo faccia assumere come un dramma da dibattere nella propria coscienza. E quante volte, invece, ci è capitato di percepire l'estroversione di questo potere, il compiacimento del potere di arbitrio, la sensazione che un giudice godesse di questo potere anziché soffrirlo: ecco, è solo allora, forse, che noi possiamo arrogarci il diritto di giudicare anche lui. Non ora, dunque. Occorre dare la precedenza all'essere umano, sempre: quello che dobbiamo giudicare e quello che deve giudicare. La morte di un figlio non è un cavillo, uno sciopero, un imprevisto di programmazione: è la toga che si fa sudario, è la bilancia della Dea Fortuna che perde il suo equilibrio perché collassa sotto il peso di un dolore che noi, ora, possiamo solo fuggevolmente immaginare sino alla fine di questo articolo. La giustizia è fragile perché è fatta di uomini, ed è forte perché è fatta di uomini: nessuna intelligenza artificiale potrà sostituirla; essere uomini significa non poter giudicare senza soffrire, e significa, da giudice, non poter smettere di giudicare anche mentre si soffre. Nessun algoritmo, nessuna macchina potrà mai prendersene il peso. Figurarsi noi, ora, comodamente seduti e pronti magari a giudicare anche lui, il giudice, a chiederci se il lutto peserà sulla sentenza, se potrà essere imparziale, se potrà giudicare questa generazione che finisce a processo oppure si uccide, questi ragazzi che ci scivolano tra le dita e che non capiamo, li guardiamo ma non li afferriamo, vivono in un codice che non è il nostro, si muovono tra eccessi e abissi, tra leggerezza e disperazione: ma che saremo costretti a catalogare con le nostre regole da adulti, e che, dal piedistallo delle nostre vite, dei nostri successi o frustrazioni, ci faranno sparare giudizi tipo colpevoli o innocenti, stupratori o vittime, e maschilismo, femminismo, patriarcato, matriarcato, le sciocchezze che sappiamo dire, noi che sbirciamo e giudichiamo per un nonnulla.

Un giudice ha perso un figlio e ora dovrà giudicare altri figli: nessuno potrà separare il suo vissuto dal compito che lo attende. È difficile avere fiducia nella Giustizia: ma in lui, nell'essere umano, e proprio perché umano, possiamo averne ancora.

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