di Stefano Zecchi
S batti il mostro in prima pagina è il titolo di un film del '72 del regista Marco Bellocchio. Nella redazione di un quotidiano che si chiama proprio Il Giornale (nome inventato, che non ha niente a che vedere con il nostro, fondato da Montanelli due anni dopo) si costruisce ad arte il colpevole di un reale delitto: lui è un giovane extraparlamentare di sinistra, lei una signorina di buona famiglia, il quotidiano appartiene alla stampa borghese reazionaria che intende gettare, appunto, sul giovane extraparlamentare l'indignazione popolare a fini elettorali, a favore della destra contro la sinistra.
È trascorso quasi mezzo secolo e quella che allora si chiamava «gogna mediatica» non è sparita, continua a esserci, ma completamente diversa da prima. A quel tempo, la gogna era un'occasione di scontro politico e ideologico, quando si riusciva a trasformare il caso in un evento nazionale; se invece si sgonfiava dell'interesse popolare, il delitto era una notizia di poche righe. Oggi, il mostro in prima pagina è semplice cronaca: l'efferatezza del crimine ci scandalizza, ma solo per poco: siamo così abituati agli episodi di violenza, che niente più ci sorprende. Molto di più ci fa riflettere quello che accade al carnefice che, sbattuto in prima pagina, per una serie di motivi umiliazione, vergogna, sensi di colpa si suicida.
Ecco allora un profluvio di ipocrisie con angosciosi interrogativi. Si è calcato troppo la mano nel dare la notizia? Siamo tutti garantisti, e allora non si poteva avanzare qualche dubbio in attesa della sentenza definitiva? Il presunto (o non presunto) colpevole che si suicida solleva dubbi morali sulla correttezza dell'informazione. Mezzo secolo fa, lo scontro ideologico era così incattivito che i dubbi morali sulla gogna mediatica erano messi in secondo piano dal cinismo politico del fine che giustifica i mezzi. Oggi ci si sparge la testa di cenere perché il fine sarebbe un volgare rincorrere l'interesse della gente con la sua morbosa curiosità.
È fuori di dubbio che un'informazione più prudente nel dare la notizia, piena di «forse» e di «ma», avrebbe reso meno drammatico il senso di colpa di quel padre che si è impiccato, accusato di aver abusato sessualmente della figlia. Si può supporre anche che, nel quasi silenzio delle notizie su ciò che avrebbe commesso quel padre, non ci sarebbe stato il suo suicidio. Sono tutte ipocrisie: il giornalista può riempire il suo articolo di «forse» e di «ma», tuttavia chi toglie subito quelle dubbiose interiezioni che renderebbero meno pesante la notizia, è proprio la gente che va per le spicce, che emette la sua sentenza in base alla sua moralità.
Non c'è niente da fare: la gogna mediatica appartiene ai media, tanto più oggi che la comunicazione è globale e non c'è neppure l'alibi dello
scontro ideologico. Pensare di edulcorare quella gogna o addirittura di eliminarla, è un'ipocrisia. In questi casi la penna del giornalista deve essere dura, inflessibile, crudele, e rispondere soltanto alla sua coscienza.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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