Coronavirus

"Troppi malati, poche risorse". Le divise in trincea a Bergamo

La compagnia di 90 militari dispiegata in Lombardia. "Gli occhi dei pazienti ti scrutano, entrano nell'anima"

"Troppi malati, poche risorse". Le divise in trincea a Bergamo

«Non dimenticherò mai i corridoi dell'ospedale di Bergamo pieni di pazienti aggrappati al respiratore, impegnati in una disperata lotta per la sopravvivenza. Solo qui capisci quanto puoi essere utile, quanto puoi aiutare i colleghi medici a sconfiggere il virus. Solo quando cammini e vedi i pazienti alzare la mano per salutarti capisci l'importanza di una divisa capace di far sentire la presenza dello Stato e della nazione». Il capitano dell'esercito Massimo Persia fino al 28 gennaio era in Kosovo. E fra poco avrebbe dovuto iniziare ad addestrarsi in vista di una partenza per l'Afghanistan. Invece è finito all'ospedale di Bergamo dove, una settimana fa, si è ritrovato in un pronto soccorso trasformato in un girone infernale affollato di pazienti in condizioni disperate. Quanto a morte e orrore insomma non si è perduto nulla.

Una settimana gli è bastata per capirlo. «È veramente una guerra di trincea - mi spiega mentre chiacchieriamo all'entrata del padiglione in cui ha lavorato tutta mattina una guerra in cui c'è una terribile sproporzione tra il numero delle vittime da salvare e le risorse disponibili. L'unica consolazione è mettere a disposizione dei miei concittadini le esperienze mediche accumulate in teatri post-bellici come Kosovo e Libano». D'impegno «simile a quello d'una campagna di guerra» parla anche il colonnello Michele Tirico arrivato in Lombardia alla testa del primo contingente di medici e infermieri delle Forze Armate dispiegato all'ospedale di Lodi quasi un mese fa. «Il numero dei morti con cui facciamo i conti ci colpisce nel profondo dell'anima - ammette - ma ci sprona anche ad andare avanti e ad affrontare la situazione». Ma proprio il vertiginoso aumento delle vittime e il peggiorare della situazione ha spinto le Forze Armate ad accrescere l'impegno. Il pugno di uomini e donne in divisa arrivato quasi un mese fa all'ospedale di Lodi si è trasformato in una «compagnia» di una novantina di militari fra Esercito, Carabinieri, Marina Militare e Aviazione dispiegati in quattro ospedali (Niguarda di Milano, Maggiore di Novara, Lodi, Papa Giovanni XXIII di Bergamo) e in dieci distaccamenti minori disseminati sui territori del Lodigiano e della Bergamasca.

Il più entusiasta di questa «compagnia» è probabilmente il giovane tenente medico dei Carabinieri Danilo Pagliari. Fino a pochi giorni fa frequentava la scuola ufficiali dell'Arma oggi invece - confessa - «mi sento come al mio battesimo del fuoco, come se d'improvviso fossi stato catapultato in una di quelle missioni all'estero a cui non ho avuto ancora occasione di partecipare». Anche perché come Danilo ha ben capito la guerra al Covid-19 minaccia di venir ricordata come la più grande calamità affrontata dall'Italia dalla fine della seconda guerra mondiale. «Nella zona del pronto soccorso decine di pazienti sono stati allineati in un'ala progettata inizialmente per le vittime di grandi calamità naturale come i terremoti. Vedendoli ho capito di vivere una tragedia senza precedenti nella storia del Paese. Come Carabiniere e medico sono orgoglioso di viverla al fianco dei miei concittadini».

Quella stessa immagine risveglia i peggiori incubi da marinaio nell'anima del capitano di fregata Daniele Picchiardi, veterano di numerose missioni internazionali nel golfo Persico e nell'Oceano Indiano. «Guardando quei pazienti affamati di ossigeno e con gravissimi problemi respiratori penso a chi annega, a chi affonda nel mare e non si può salvare. Ma per fortuna la mano in più offerta dai medici in divisa può aiutarli a restare a galla». Il tenente colonnello Marco Andreis distaccato qui dall'istituto di medicina spaziale dell'Aeronautica militare di Milano non riesce a scordare gli sguardi dei pazienti imprigionati negli scafandri della ventilazione assistita. «Quegli sguardi ti scrutano, ti chiedono aiuto e ti ringraziano, ma ti entrano anche nell'anima. L'unica emozione capace di distrarmi e cancellarli dalla mente e quella della mia prima sera qui a Bergamo. Quella sera sentii le note dell'inno di Mameli e istintivamente mi affacciai alla finestra. Subito dopo sentii la voce di un bimbo urlare ce la faremo, andrà tutto bene.

Da quella sera me lo ripeto anch'io».

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