Dal nostro inviato a Taormina (Me)
Per la foto di gruppo al Teatro Greco doveva arrivare buon ultimo, come capo di Stato più anziano. Ma gli altri leader del G7 hanno dovuto aspettarlo una decina di minuti, molto più di quanto il protocollo prevedesse. Poi, nella passeggiata fino al Belvedere, photo opportunity perfetta per il passaggio delle Frecce Tricolori, gli altri sono andati avanti, Donald Trump li ha raggiunti dopo un po'. Con tutta probabilità la colpa è stata della security Usa che è sembrata particolarmente preoccupata: a differenza di quasi tutti gli altri G7, ospitati di solito in luoghi isolati, quello italiano di Taormina si sta svolgendo in una cittadina presidiata come una base militare ma regolarmente e fittamente abitata, con tutti i problemi del caso.
Eppure, anche se la distanza fisica tra l'inquilino della Casa Bianca e suoi colleghi nei primi minuti del vertice ha semplici ragioni tecniche, la si può considerare una buona metafora dell'avvio del G7 italiano. Trump da una parte, i partner dall'altra. Ovvero, nei momenti di maggiore asprezza, Trump contro il resto del mondo. Non è solo una questione di contenuti, ma anche di linguaggio e di atteggiamento. Il nuovo inquilino della Casa Bianca ha deciso di mandare in soffitta l'ordine internazionale così come l'abbiamo conosciuto. Di quell'ordine gli Stati Uniti, sostenitori a oltranza del libero mercato, disposti, per il senso della propria missione storica, ad accollarsi senza troppe storie le spese per la difesa del mondo occidentale, erano il fulcro. Adesso è cambiato tutto.
Più o meno una quindicina d'anni fa uno studioso statunitense, Robert Kagan, fece fortuna con un libro: «Gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere». Allora la materia del contendere era la guerra in Irak: Bush voleva farla a tutti i costi, Parigi e Berlino rifiutarono di dargli una mano. Gli Usa erano i coriacei difensori del mondo libero, gli europei delle anime belle che non avevano il coraggio nemmeno di difendersi. Il fossato tra i due continenti è stato dimenticato negli otto anni di Obama, il più europeo (e meno americano) dei presidenti. Ora sembra più largo che mai. A separare le due rive dell'Oceano non sono più solo la pace e la guerra, ora ci sono anche il clima, il commercio internazionale, l'assistenza ai Paesi in via di sviluppo, l'immigrazione.
E il linguaggio. Ieri la giornata è stata occupata dalla polemica sulle dichiarazioni di Trump: «Germans are bad», i tedeschi sono cattivi, avrebbe detto a Bruxelles, il giorno prima di arrivare a Taormina. Il riferimento era al surplus commerciale di Berlino. E nel tentativo di metterci una pezza il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker ha spiegato che nelle parole di Trump «bad» erano le troppe esportazioni, non i tedeschi in quanto tali. Possibile. Ma la sostanza è che Donald non molla di un passo. Il consigliere economico del presidente Gary Cohn ha ricordato ieri che gli Stati Uniti vogliono un commercio «più giusto», quanto al clima «dobbiamo eliminare le regole che sono un ostacolo alla crescita».
Resta il tema se uno strumento come il G7, o come gli altri vertici spettacolo, diventati ormai appuntamenti fissi della politica internazionale, siano utili per avvicinare approcci così diversi.
La spasmodica attenzione mediatica (a Taormina sono arrivati quasi duemila giornalisti da tutto il mondo) o l'affastellarsi di temi disparati che vanno dagli aiuti allo sviluppo alla guerra cibernetica sembrano più un ostacolo che un aiuto. Il G7 del 2016, svoltosi in Giappone, terminò con un documento finale di una cinquantina di pagine. Il mondo non se n'è accorto.
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