Inutile girarci attorno: al vertice G20 di Amburgo si è certamente discusso di temi rilevanti come il commercio internazionale, il terrorismo islamico, la crisi migratoria nel Mediterraneo e le minacce nucleari della Corea del Nord, ma l'evento - anche mediatico - più importante è stato il primo incontro personale tra Donald Trump e Vladimir Putin.
Il primo ci è arrivato accompagnato dai dubbi sollevati dal suo atteggiamento ambivalente nei confronti del secondo, e ne è uscito inseguito da nuove sgradite rivelazioni (scovate dai suoi persecutori a tempo pieno del New York Times) sugli impropri contatti dei suoi familiari e del suo staff con il Cremlino: tutto materiale che va ad aggiungersi al corposo e imbarazzante dossier del «Russiagate». Putin, invece, si è presentato al faccia a faccia di Amburgo come un giocatore di poker che cerca di «vedere» le carte del suo avversario senza pagare prezzi troppo alti, e magari piazzando durante la partita qualche colpo redditizio.
Il presidente russo sembra esserci riuscito, rassicurando Trump sulla sua (molto presunta) estraneità agli hackering che avrebbero condizionato le elezioni presidenziali americane (peraltro a vantaggio dello stesso Trump, il che rende tutta la vicenda piuttosto comica), e ottenendone un relativo assenso. Putin ha subito speso questo successo in pubblico, sottolineando più volte che Trump gli avrebbe creduto. E Trump ha preferito, dopo aver rifilato al collega russo una serie di colpi pesanti nel suo discorso ostentatamente filo-europeo e filo-Nato di Varsavia, tornare a un registro positivo nei confronti del Cremlino: ha enfatizzato il valore concreto dell'intesa raggiunta con Putin (e subito applicata) per una tregua militare in Siria e ha assicurato che sia giunto il momento di «portare avanti un lavoro costruttivo con Mosca».
Segnali costruttivi di questa intenzione Trump li aveva già manifestati portando con sé ad Amburgo una delegazione priva di alcuni dei consiglieri più critici verso Putin ed evitando di affrontare il tema delle sanzioni contro Mosca «prima di discutere di Siria e di Ucraina». E ieri ne ha mandato un altro anche più concreto, seppure al momento di non chiarissimo contenuto: ha annunciato in una serie dei suoi ormai abituali tweet mattutini di aver discusso con il presidente russo della creazione di «una unità impenetrabile di cybersicurezza», il cui scopo sarebbe quello di «vigilare sugli attacchi di hackers alle elezioni e tante altre cose negative».
La notizia di giornata rimane comunque la nuova bordata sparata dal New York Times contro il presidente degli Stati Uniti. Rivelando un nuovo risvolto del Russiagate, il giornale più ostile d'America al suo attuale leader informa che non solo il genero di Trump, Jared Kushner marito della figlia Ivanka, ma anche il figlio Donald Trump junior incontrò emissari russi durante la campagna elettorale dello scorso anno. All'incontro avvenuto nella Trump Tower di New York il 9 giugno 2016 parteciparono anche l'avvocatessa russa Natalia Veselnitskaya, nota per essere vicina agli ambienti del Cremlino, e Paul Manafort, allora direttore della campagna elettorale di Donald Trump.
In un comunicato, il figlio del presidente ha confermato l'incontro, sostenendo che si sia trattato di «una breve riunione di presentazione» in cui si parlò soprattutto del tema delle adozioni di bambini russi.
Com'è noto, Putin ha da tempo bloccato queste adozioni negli Stati Uniti come reazione all'adozione negli Usa del «Magnitsky Act», una legge che mette al bando dagli States chi viola i diritti umani in Russia. L'avvocatessa Veselnitskaya - scrive il New York Times - è conosciuta per la sua campagna contro il Magnitsky Act.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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