Politica

Trump si prende la nomination Cruz e Kasich gettano la spugna

Il partito a denti stretti si prepara a sostenere un candidato che non sopporta. Tra i democratici inutile vittoria di Sanders

Trump ha vinto le primarie in Indiana ed è il candidato ufficiale del partito repubblicano, anche se deve conquistare qualche altro delegato nelle prossime primarie. Ma il partito, i suoi dirigenti, molti senatori e membri del Congresso sono in rivolta e dicono che non lo voteranno mai perché sono feared, terrorizzati, da quello che potrebbe fare e dire il candidato presidenziale del Grand Old Party prima delle elezioni di novembre.

«The Donald» ha dato il meglio di sé martedì durante la votazione delle primarie nello Stato dell'Indiana menando colpi sotto la cintura specialmente contro il suo nemico più odiato, Ted Cruz, sostenendo che il padre cubano del senatore era in combutta con Fidel Castro e con l'assassino del presidente John Fitzgerald Kennedy. Poi lo ha attaccato dandogli del fanatico, del patetico, dell'infantile instabile e - già che c'era - ha aggredito anche il povero Jeb Bush che non è più in corsa da tempo. Quando ha avuto la conferma di aver vinto in modo imprevisto e straordinario ha finto di rendere l'onore delle armi a «Ted il bugiardo» definendolo un combattente formidabile. Poi però lo ha mitragliato di tweet ridicolizzandolo. Tutto ciò nella storia americana è inaudito nel senso che non si era mai udito prima.

Ogni compassatezza formale è stata spazzata via e gli analisti sostengono che questo atteggiamento spavaldo, teatrale, senza complessi è ciò che piace all'elettore arrabbiato. La maggior parte dei repubblicani iscritti al partito e che votano alle primarie si dicono furiosi col governo, lo Stato, le tasse, gli emigranti. Ma gli elettori normali che non hanno partecipato alle primarie? Lì è la sfida su cui nessuno azzarda pronostici sicuri, perché ormai tutti gli schemi tradizionali sono stati azzerati.

Nei sondaggi nazionali Hillary Clinton è ben in testa e batte Donald Trump con dieci punti di vantaggio, ma da qui a novembre tutto è possibile. La vittoria di Trump nell'Indiana ha costretto Cruz a ritirarsi: «Non possiamo batterci contro gli elettori». Poche ore dopo anche John Kasich, suo compagno di cordata, ha mollato e si è ritirato. Soltanto a questo punto il chairman del Republican National Committee, Reince Priebus, ha riconosciuto a denti stretti che quel che è fatto è fatto e dunque si va avanti con Trump. L'uscita di Cruz e Kasich significa che nelle prossime primarie Trump non avrà avversari e conquisterà tutti i delegati che vuole.

Il problema ora è l'elettore senza spirito di partito, che osserva in silenzio. È davvero così arrabbiato? L'anger, la rabbia, è la parola chiave del successo del tycoon newyorchese, ma anche il suo limite perché non si sa esattamente quanta rabbia ci sia in giro e gli americani in queste ricerche sono molto meticolosi.

Sembra che di rabbia infuriata ce ne sia meno di quella che ha finora sostenuto Trump. Del resto la rabbia dell'americano bianco e giovane è andata fino ad oggi a Bernie Sanders che, come un profeta del socialismo ugualitario, predica e poi vince. È lui, infatti, il democratico che ha vinto nell'Indiana. Ha stracciato la Clinton e probabilmente la straccerà ancora, ma ormai Hillary ha accumulato un vantaggio incolmabile di delegati e di superdelegati, ovvero i boss di partito fra cui suo marito Bill, ex presidente. È quindi sicuro che Sanders prima o poi abbandonerà, ma a chi andranno allora i voti della rabbia di sinistra? Trump è considerato dai progressisti un pazzo di estrema destra, ma alla fine, dicono i sondaggi, ne intercetterà una parte. Sì, perché la Clinton - come ammette il New York Times che la sostiene - è antipatica come persona e politicamente subdola perché sostenuta dal Washington Cartel, la banda dei politici in combutta con le aziende finanziatrici.

Per dare un'idea dei soldi che girano in questa campagna: il povero Bernie Sanders, che vive di collette studentesche, solo nell'Indiana ha speso in questi giorni un milione di dollari in pubblicità televisiva, mentre la Clinton non ha tirato fuori un solo dollaro perché sapeva di non avere alcuna possibilità in uno Stato a stragrande maggioranza bianca. La Clinton oggi ha più sostenitori neri di quanti ne avesse Obama quattro anni fa e sono i «non bianchi» il nerbo del suo elettorato.

Il successo di Trump e quello di Bernie Sanders dimostrano che per la prima volta l'America è spaccata fra una destra ancora non definibile e una sinistra apertamente marxista, aggettivo che non è più un marchio d'infamia. Un'altra anomalia del candidato Trump è che non ha alle spalle alcuna esperienza amministrativa o parlamentare. L'ultima volta che vinse un outsider della politica fu quella del generale a cinque stelle Dwight Eisenhower - l'ex comandante in capo delle forze alleate ad arrivare alla Casa Bianca senza aver mai governato.

Trump sta riflettendo e tutto il suo staff (pochissime persone, spese ridottissime benché sia miliardario di suo) sta lavorando per fargli cambiare passo e conquistare il voto di chi non ne vuole sapere di lui. I maggiorenti repubblicani, molti senatori e spin doctor fuggono: «Preferisco sostenere Hillary Clinton», dichiara lo stratega repubblicano per il Senato Mark Salter.

E Stuart Stevens, che aveva lavorato per Mitt Romney nella campagna del 2012, prevede che Trump porterà il partito alla catastrofe. Persino il giornale di destra Wall Street Journal prende le distanze, rimprovera a Ted Cruz di aver fatto una campagna mediocre per la vera destra e avverte Trump che non riuscirà a battere Hillary Clinton con gli insulti.

La destra economica avrebbe preferito Cruz che è un vero ultraconservatore, «cristiano rinato» evangelico, intransigente sull'aborto ma favorevole al possessi di mitragliatrici in giardino.

A Trump da adesso in poi non basteranno gli effetti speciali, in cui finora è stato un vero mago e un incantatore di folle.

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