Cultura e Spettacoli

In tv l'anno di Mani Pulite senza retorica

La serie 1992 si concentra sil cambiamento di un Paese confuso. I pm restano sullo sfondo, al centro la gente comune

In tv l'anno di Mani Pulite senza retorica

Sei personaggi in cerca di futuro. Sei outsider a caccia di successo. Sei personaggi qualsiasi, in un certo senso. Che, nel 1992, svoltano. L'avvento di Tangentopoli trasforma le loro esistenze. Sono sei personaggi inventati, ma significativi e molto pertinenti.

Un pubblicitario in carriera, Leonardo Notte (Stefano Accorsi), con un passato nell'estrema sinistra. Una starlette della tv, Veronica Castello (Miriam Leone), che insegue il successo definitivo. Un ex militare reduce dalla prima guerra del Golfo, Pietro Bosco (Guido Caprino), che finisce in Parlamento con la Lega. Un poliziotto che lavora per il Pool, Luca Pastore (Domenico Diele), con una vendetta da consumare. Un altro poliziotto, Rocco Venturi (Alessandro Roja), affianca i magistrati nelle indagini, ma ha un fondo di ambiguità. La figlia, punkabbestia e viziata, di un potente e chiacchierato imprenditore, Bibi Mainaghi (Tea Falco), che s'invaghisce di Pastore. Sono queste figure dai cognomi evocativi (Notte, Bosco, Pastore, Castello...), i protagonisti di 1992 , la nuova serie in dieci puntate prodotta per Sky dalla Wildside di Lorenzo Mieli e Mario Gianani, con la regia di Giuseppe Gagliardi ( Tatanka ). Tre anni di lavoro, con la supervisione di Nils Hartman, direttore delle produzioni originali, e Andrea Scrosati, vicepresidente di Sky Italia.

Protagonisti non sono i magistrati che scoperchiarono il marcio di Tangentopoli. O i politici e il mondo berlusconiano. E nemmeno la Lega nella sua fase fondativa e massimamente ruspante, anche se a tratti conquista il proscenio. In una Milano ricostruita alla perfezione, con le giuste citazioni musicali, nell'anno che iniziò la transizione alla seconda Repubblica, si muovono quelle persone normali. Storie nella storia. Che, per una volta, non è quella di Piazza Fontana o degli anni Settanta. O quella degli eroi della fiction tradizionale, da Ambrosoli a Borsellino allo stesso Di Pietro, «che avremmo dovuto per forza dipingere come dei santini», ha spiegato Stefano Sardo, uno degli autori.

«Non c'era ancora Sky quando pensai la prima volta a una serie su quell'epoca», ha raccontato Stefano Accorsi, qui nelle vesti d'ideatore oltre che d'interprete, dopo la proiezione che ha aperto la sezione televisiva del Festival di Berlino. «Ne parlai con un produttore, che non era Lorenzo Mieli. E mi disse che molto difficilmente Rai o Mediaset avrebbero realizzato una fiction così», ha detto Accorsi prima di lanciarsi nell'elogio di Renzi («nella politica c'è stato un cambio generazionale che dà speranza. Renzi ha profondo rispetto per le istituzioni»).

Molto diversa da Gomorra. La serie per stile e approccio narrativo, 1992 debutterà su Sky Atlantic il 24 marzo, in contemporanea con Inghilterra, Germania, Irlanda, Austria. Ma si può già essere certi che anche questa fiction finirà per dividere l'opinione pubblica. Innanzi tutto, perché non vi si trova la beatificazione del Pool di Mani pulite. Di Pietro (Antonio Gerardi) è narrato come un uomo forte e decisionista fino al punto di non fidarsi troppo di Borrelli (Giuseppe Cederna), né di Giovanni Falcone. Al contrario, Luca Pastore, il poliziotto al quale si appoggia, è animato da un forte spirito di vendetta, che lo indurrà a violare le regole per incastrare l'imprenditore che gli ha procurato un danno forse irreparabile. È questa la chiave narrativa della serie. Ognuno dei protagonisti entra nella storia mosso da un sentimento, un'ambizione, un segreto inconfessabile, una macchia da cancellare, che lo costringe a forzare gli eventi. Tutto attorno l'Italia sta cambiando. Cambiano le regole, crollano riferimenti che sembravano invincibili. Cosa stava per succedere? «Abbiamo provato a raccontare gli uomini nuovi, quelli che hanno vinto e hanno comandato fino a poco tempo fa», ha detto Ludovica Rampoldi, una degli autori della serie. «Erano dei dropout , ma le correnti ascensionali scatenate dal terremoto di Tangentopoli li hanno spinti in alto».

Il secondo motivo che potrà causare polemiche è determinato proprio dal modo in cui vengono dipinti quegli uomini nuovi, i vincenti. Finora, soprattutto al cinema, quell'epoca è stata rivisitata in modo ideologico. «Noi abbiamo provato a entrare nei corridoi del potere con un approccio il più possibile oggettivo, puntando sulla documentazione», ha spiegato ancora Accorsi. «Certo, poi c'è il lavoro degli sceneggiatori. Ma in passato tante volte, a causa dei pregiudizi, il cinema è rimasto fuori dalla porta».

Se pensiamo ai vari Videocracy , Il Caimano , Silvio Forever , il mondo berlusconiano è stato spesso dipinto in modo ostile. Nessun merito viene riconosciuto al Cavaliere né come imprenditore né come politico. In 1992 , salvo una rappresentazione di Marcello Dell'Utri, obliquo regista di Publitalia e della futura «discesa in campo», il mondo berlusconiano è restituito come quello che riesce a comprendere meglio ciò che sta accadendo. Ed è significativo che a compiere questa operazione sia un editore concorrente di Mediaset. Il Cavaliere vi compare poche volte, da interviste televisive o alle convention, manifestando forza visionaria e fiducia incrollabile nel lavoro e nella capacità imprenditoriale del Paese. Il pubblicitario ex estremista di sinistra con uno scheletro nel cuore deve capire per conto di Dell'Utri quali saranno gli interlocutori del futuro. «Dobbiamo salvare la Repubblica delle banane», gli dice il capo di Publitalia, narrandogli la storia della Chiquita in Guatemala. Così Accorsi si mette a cercare di capire «cosa vuole la gente». Per scoprire che, anziché affidarsi ai politici di professione e ai «partiti tradizionali», come dice Berlusconi in un'intervista a Mike Bongiorno, «il futuro è qui».

Ovvero, le energie e le intelligenze in grado d'interpretarlo si trovano proprio nel mondo della pubblicità e della tv commerciale. Che, un anno dopo, daranno vita a Forza Italia. Ma questa è un'altra storia.

E, forse, un capitolo intitolato 1993.

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