Nelle stesse ore in cui Emmanuel Macron assicura a Volodymyr Zelensky che la Francia «rafforzerà» l'invio di «forniture belliche» e «aiuti umanitari» all'Ucraina, Mario Draghi è costretto a respingere l'assedio di un Giuseppe Conte sempre più critico verso il sostegno militare dell'Italia a Kiev e, soprattutto, deciso a chiedere un nuovo «confronto in Parlamento». Perché, spiega l'ex premier, il voto delle Camere dello scorso inizio marzo - praticamente all'unanimità, con il via libera granitico dello stesso M5s - autorizza sì l'invio di armi in Ucraina fino al 31 dicembre 2022, ma «non tiene conto dei mutamenti» che «si stanno delineando a livello internazionale». Le condizioni, insomma, sono cambiate. Così come le convinzioni di Conte.
E diverso - tornando al parallelo tra Francia e Italia - è anche lo scenario interno. Perché Macron è stato appena riconfermato all'Eliseo e le legislative francesi di giugno sono sì un cruccio, ma non particolarmente ingombrante. Il presidente francese, insomma, può muoversi senza guardare i sondaggi, a differenza di un Conte - e con lui anche altri importanti pezzi della maggioranza - sempre più condizionato dalle amministrative di giugno, una sorta di prequel delle politiche di inizio 2023. Il leader del M5s, insomma, è sulle barricate anche e soprattutto per ragioni elettorali. Questo dicono apertamente non solo a largo del Nazareno, ma pure a Palazzo Chigi. Dove le minacce di aprire un fronte in Parlamento sul posizionamento dell'Italia nel conflitto in corso tra Russia e Ucraina vengono considerate serie ma derubricate senza troppe preoccupazioni. Il leitmotiv, d'altra parte, è lo stesso che Draghi ha ripetuto a Matteo Salvini lunedì scorso: siamo tutti per la pace e per il negoziato, che restano le nostre bussole, ma il sostegno militare e umanitario a chi è stato invaso può essere messo in discussione solo in tv, non certo con un voto in Parlamento che finirebbe per aprire una crisi di governo. Il premier, insomma, sul punto non arretra. Non solo perché il governo ha preso impegni internazionali chiari e sostenuti a larghissima maggioranza dalle Camere, ma anche perché se oggi l'auspicio è che l'Ucraina possa davvero reggere all'invasione russa è solo perché l'Occidente ha sposato una posizione di deciso sostegno alla causa di Kiev. Insomma, se due mesi fa avessimo seguito la linea di Conte - a cui spesso strizza l'occhio Matteo Salvini - oggi l'Ucraina sarebbe già stata annessa alla Russia.
Peraltro, la posizione del leader del M5s viene considerata «pretestuosa» a Palazzo Chigi. L'ex premier, infatti, sa bene che il quarto decreto interministeriale su un eventuale nuovo invio di armamenti a Kiev non è al momento in programma. Il terzo è stato più che corposo - anche economicamente - e nelle prossime settimane non sono previste ricognizioni del ministero della Difesa sul punto. Questo, almeno, ha detto due giorni fa Lorenzo Guerini davanti al Copasir. Quindi, nessun ulteriore decreto fino a dopo le amministrative di metà giugno. Circostanza che - è il senso di ragionamenti che si fanno a Palazzo Chigi - dovrebbe tranquillizzare un Conte che si muove «solo in logica elettorale». D'altra parte, sul punto è piuttosto chiaro anche il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova.
Che non esita a definire «poco responsabile» la «posizione di Conte e Salvini» che «mettono in dubbio la linea che l'Italia ha seguito finora». Proprio ora, aggiunge, che dall'Ucraina «arrivano finalmente segnali positivi».
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