Da tabù, a piano concreto analizzato in lungo e in largo da banche d'affari e analisti per conto dei poteri forti. Questa è l'Italexit, il possibile abbandono della moneta unica da parte dell'Italia, che Il Giornale sta portando alla luce dimostrando come dietro le quinte della finanza internazionale il dibattito sia aperto. Banche d'affari svizzere, americane e italiane ne parlano da tempo.
Tra i primi a discuterne apertamente era stato, a inizio settembre, il Credit Suisse che, pur ritenendo l'ipotesi decisamente remota e limitata a un modesto 1% di possibilità, in un arco di tempo medio-lungo accennava al percorso normativo per arrivare all'addio alla moneta unica. Dal vaso di Pandora degli euroscettici, Il Giornale ha poi svelato anche il report riservato firmato da Mediobanca che prospetta con l'addio all'euro risparmi potenziali per 8 miliardi di euro. Un fermento, quello che ruota intorno all'euro, che non è solo di questi giorni, ma parte da lontano dimostrando come la finanza internazionale stia facendo da tempo i conti in tasca al Belpaese e all'ipotesi di un ritorno alla Lira. Ovviamente per prepararsi a ogni scenario. Ben prima che la Brexit «passasse», sorprendendo tutti. Già due anni fa, Mario Giordano nel suo «Non vale una lira. Euro, sprechi, follie: così l'Europa ci affama», raccontava l'assordante silenzio imposto al dibattito italiano sul tema chiedendosi «perché nulla di quanto analizzato e ipotizzato dalle banche d'affari trapelasse lasciando a trarne beneficio solo i grandi operatori istituzionali. Se davvero l'Italia scriveva - ha la possibilità di salvarsi uscendo dall'euro prima degli altri, perché questo non viene spiegato anche agli italiani? Perché, al contrario, ogni volta che si pone la questione dell'euro si viene liquidati con un'alzata di spalle e un'occhiata di disprezzo?».
Eppure i report abbondano. Qualche esempio? La Greenwich Treasury Advisors, società di consulenza che ha fra i suoi clienti le più grandi multinazionali, dalla Ibm alla Siemens, dalla Monsanto alla General Motors, segue con attenzione lo sviluppo della situazione anche perché, scriveva già nel 2013, «in democrazia non possono essere sostenuti piani di austerità per molti anni consecutivi e, dunque, la rottura del patto dell'euro da parte di qualche Paese che non ce la fa più a reggere la situazione è da mettere in conto». L'unico documento di cui si è avuta notizia negli anni passati arriva sempre da un istituto svizzero ed è quello realizzato, nel settembre 2011, dall'Ubs, l'Unione delle banche svizzere. Uno studio piuttosto catastrofico nelle sue stime e prevede costi altissimi per i cittadini europei in caso di exit. Eppure, anche questo rapporto comincia così: «L'euro ha creato più costi economici che benefici ai suoi membri. E per questo potrebbe non esistere più».
Per tornare alla più recente attualità, è di ottobre l'ultimo Geopolitical Weekly, il report settimanale di Stratfor, piattaforma di intelligence e analisi globale, sul tema.
Incrociando lo stato delle economie e il clima politico determinatosi col rischio Grexit prima, e con l'avvio della Brexit poi, lo studio si domanda chi sarà il prossimo a uscire dall'Ue. E secondo Stratfor, «l'Italia è uno dei paesi che avrebbe più interesse a minacciare un'uscita per strappare condizioni favorevoli».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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