Benché il reale andamento della discussione sia destinato a restare sepolto nel segreto della camera di consiglio, è inevitabile domandarsi quali dinamiche si siano sviluppate nei tre giorni in cui la Corte d'assise di Palermo è rimasta in clausura in carcere per emettere la sentenza finale del processo sulla trattativa Stato-Mafia. Partendo da un dato di fatto: ogni volta che il teorema del pm Antonino Di Matteo era stato portato all'esame di giudici di mestiere era stato sonoramente sconfessato.
Stavolta invece - vista la gravità dei capi d'imputazione - si procedeva davanti alla Corte d'assise: due giudici togati, il presidente Alfredo Montalto e il giudice a latere Stefania Brambille, e sei cittadini qualunque, i cosiddetti giudici popolari, cittadini qualunque. Requisiti: la terza media e i trent'anni compiuti) prestati alla giustizia dietro rimborso di 25,82 euro al giorno. Non sanno nulla di diritto ma il loro parere conta esattamente quanto quello dei «togati». Bastano quattro giurati che si impuntano, e la linea proposta dai due professionisti può essere messa in minoranza.
Normalmente non accade, il presidente sa accompagnare i giurati sul sentiero che considera più corretto. Ma ogni tanto succede che il cittadino con fascia tricolore non si faccia convincere e vada allo scontro con i due del mestiere. Accadde, e clamorosamente, in uno dei processi per l'omicidio Calabresi.
Quando il tema, come nella sentenza di Palermo, è squisitamente politico, è difficile immaginare che i giurati riescano sempre a lasciare le loro opinioni fuori dall'aula.
A Palermo il 4 Marzo il Movimento 5 Stelle ha preso il 48,5 dei voti, quindi è statisticamente plausibile che tra i sei giurati del processo sulla Trattativa ci fossero almeno tre elettori grillini: cittadini che odiano la Casta, e che hanno nel pm Di Matteo il loro guru. È troppo poco per ipotizzare che la sentenza di venerdì mattina sia stato (anche) un «Vaffa day» giudiziario?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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