Coronavirus

"Varese oggi è come Bergamo a febbraio. Ormai è impossibile curare tutti i malati"

L'infettivologo dell'Ospedale di Circolo: "Seconda ondata peggio della prima Il contagio ha ritmi impressionanti. Ogni giorno 70 pazienti gravi in più"

"Varese oggi è come Bergamo a febbraio. Ormai è impossibile curare tutti i malati"

Il suo biglietto da visita è un messaggio per niente rassicurante: «Purtroppo qui a Varese la seconda ondata è peggio, molto peggio della prima». Paolo Grossi, direttore delle malattie infettive dell'Ospedale di Circolo e professore all'Università dell'Insubria, è nel suo bunker. Fra un'emergenza e l'altra: «Ogni giorno arrivano 60-70 malati gravi, da ricoverare. E dobbiamo trovare un letto per ciascuno. Il contagio avanza con ritmi sbalorditivi. Altro che marzo».

Quando è cominciata questo secondo round?

«Ai primi di ottobre quando sono arrivate alcune persone che si erano tutte infettate andando in Francia per le vacanze».

Poi che è successo?

«Si è tergiversato, mentre il contagio dilagava. Oggi abbiamo 530 pazienti e siamo stati costretti ad attrezzare delle succursali, mi si passi la parola, a Tradate, ad Angera a Luino. Non è finita: presto apriremo una struttura per malati più gestibili a Quasso al Monte, verso il confine con la Svizzera. A marzo riuscivamo a curare tutti qui a Varese. Oggi è impossibile e consideri ancora che da lunedì abbiamo un invidiato modulo di 14 letti all'ospedale della Fiera, preziosissimo oggi dopo essere stato oggetto di critiche scriteriate nei mesi scorsi. Se devo dirla tutta, e non credo di esagerare, Varese è oggi nella situazione in cui era Bergamo a febbraio».

Chi si ammala in questa fase?

«I numeri sono impressionanti: ho 96 pazienti con il casco e altri 40-50 in terapia intensiva».

I morti?

«Purtroppo sono un'esperienza quotidiana. In gran parte si tratta di persone anziane che hanno preso la malattia a casa».

Possibile?

«Si, certo, sapendo di essere fragili non si azzardavano ad uscire. Non avevano calcolato figli e nipoti».

Il virus è sempre quello di prima?

«Cattivo era e cattivo è rimasto. Mi spiace che questa estate autorevoli colleghi abbiano alimentato false speranze, facendo credere all'opinione pubblica che il virus fosse sparito e sostenendo quel che la gente voleva sentirsi dire».

Adesso come se ne esce?

«Penso che il lockdown servirà per invertire la rotta. Certo, sarebbe stati bene chiudere ad ottobre quando le cifre erano più contenute. Non saremmo arrivati a questo punto drammatico. Poi conta l'educazione del singolo. Qui al Circolo non è diventato positivo un medico che fosse uno. E il motivo è semplice: rispettiamo scrupolosamente le regole di base. Indossiamo sempre le mascherine, ci laviamo le mani di frequente. Se uno sta attento, è difficile contaminarsi».

Presto arriverà l'attesissimo vaccino. Le Borse hanno già festeggiato.

«Ci vorranno ancora mesi, non sarei così euforico. Lo dico sommessamente, ma quel che ci servirebbe con urgenza è una cura che ancora non c'e».

Si fa un gran parlare del Remdesivir.

«Che però dev'essere somministrato al momento opportuno. Se no, non serve a niente».

E qual è il momento giusto?

«La malattia segue un suo percorso a tappe: cinque giorni dopo il contagio, più o meno, si manifestano i primi sintomi. Ecco quello è il periodo in cui il Remdesivir può aiutare l'organismo in lotta con il nemico».

E perché spesso non si interviene?

«Il Remdesivir viene dato per endovenosa. Ma chi va casa per casa per monitorare uomini e donne che magari in quel momento non stanno nemmeno così male? Ci vorrebbe una medicina territoriale che ci sogniamo».

Poi?

«Dopo una media di cinque giorni ulteriori molti cominciano a migliorare».

Gli altri?

«Purtroppo precipitano e solo il cortisone può dare una mano. Ma i più fragili, pur assistiti con l'ossigeno, non ce la fanno. E muoiono.

Come purtroppo accade tutti i giorni».

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