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Il vincitore ringrazia gli emigrati in Europa: in Germania e in Belgio plebiscito per il "sì"

Dalle metropoli del Vecchio continente il consenso che ha fatto la differenza

Il vincitore ringrazia gli emigrati in Europa: in Germania e in Belgio plebiscito per il "sì"

Berlino - I numeri parlano da soli: Erdogan ha vinto per meno di 1,4 milioni di scarto in un Paese con 58,3 milioni di elettori. A dargli una mano non è stata solo la provincia della Turchia profonda che ha votato «sì», ma anche moltissimi cittadini turchi che da quella provincia profonda sono emigrati anni fa in cerca di fortuna. Elettori fedeli, orgogliosi di un presidente che, salito al potere 14 anni fa come primo ministro, ha dato un forte impulso allo sviluppo economico del Paese. Sotto la sua guida, il Pil pro capite è passato dai 9.491 dollari del 2003 ai 24.309 del 2015 (dati Ocse): i cittadini, anche quelli residenti all'estero, se ne sono accorti e hanno ringraziato il presidente regalandogli il «sì» tanto sperato.

L'agenzia Anadolu ha diffuso i dati sul comportamento elettorale dei quasi tre milioni di turchi residenti all'estero. Quasi la metà degli aventi diritto (il 48%) ha partecipato al voto, una percentuale molto più bassa dell'85% registrato a casa. Eppure chi è andato a votare aveva le idee molto chiare: nel collegio estero il 59,1% ha detto sì alla concentrazione dei poteri nelle mani del sultano. E nella vecchia Europa Erdogan ha fatto cappotto. Solo in Germania, dove gli elettori turchi sono ben 1,4 milioni, i sì hanno vinto 63 a 37. Nel vicino Belgio, dove gli aventi diritto sono 120 mila, il sì ha stravinto superando il 75%. Più a favore di Erdogan dei cittadini turchi di Bruxelles e di Anversa, solo quelli residenti in Giordania (75,9% per il sì) e in Libano (93,9%). Con una differenza: gli standard democratici dei due Paesi mediorientali non sono paragonabili a quelli europei.

E se il boom economico spiega il sostegno di molti a favore di Erdogan, è comunque inquietante osservare come tanti emigrati turchi residenti nell'Europa libera e democratica abbiano legato mani e piedi dei loro connazionali in patria, consegnandoli alla «democratura» di Erdogan. Un leader che, ancora privo dei poteri previsti dalla nuova costituzione, ha arrestato o silurato decine di migliaia di funzionari dello Stato, militari, accademici e giornalisti, tutti accusati di essere cospiratori gülenisti o terroristi curdi.

La repressione contro ogni forma di opposizione ha travalicato i confini turchi, arrivando anche in Europa. Basti pensare al giornalista della Welt, il turco-tedesco Deniz Yücel in carcere da mesi e al quale Erdogan l'ha giurata personalmente; o ai consolati turchi in Germania che avrebbero invitato gli studenti a riferire delle opinioni anti-Erdogan dei propri insegnanti.

In tale marasma politico e diplomatico l'Ue, al solito, balbetta. Da anni ha promesso l'adesione ad Ankara ma non ha trovato l'accordo neppure per liberalizzare i visti di studenti e imprenditori. Oggi come ieri le leadership europee si muovono in ordine sparso. Angela Merkel ha invitato il vincitore Erdogan (uno che in tempi recentissimi ha definito i tedeschi «dei nazisti») a dialogare con tutte le componenti della società civile turca, «che è molto divisa». Meno diplomatico, invece, il giovane ma già navigato ministro popolare dell'Austria (un Paese con 130 mila elettori turchi), Sebastian Kurz: «La Turchia non può diventare un membro dell'Ue», ha dichiarato commentando l'esito del referendum.

E mettendo l'accento sui dubbi sollevati da Osce e Consiglio d'Europa riguardo al processo elettorale in Turchia, ha aggiunto: «Le procedure in Turchia sono incompatibili con i valori fondamentali europei».

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