Coronavirus

Le vittime sono 362, superata la Sars Pechino chiede aiuti e accusa Trump

«Mascherine, tute protettive e occhiali» le richieste all'Occidente Ma gli Usa finiscono nel mirino: «Hanno solo diffuso il panico»

Le vittime sono 362, superata la Sars Pechino chiede aiuti e accusa Trump

Con la trecentosessantaduesima vittima confermata ieri, il coronavirus partito due mesi fa da Wuhan ha superato il totale dei morti provocati in Cina dall'epidemia di Sars del 2003. Un numero tragicamente simbolico, mentre l'espandersi continuo del numero di contagi (è stata ormai superata la soglia di 17mila casi ufficialmente registrati) promette che la triste conta andrà avanti ancora a lungo. Ma più che la conferma della pericolosità della malattia, sono le difficoltà incontrate nella sua gestione a preoccupare e a fare notizia. E se da una parte il governo di Pechino, che rimane mobilitato e ha investito finora 6 miliardi di euro, riconosce il problema e chiede l'aiuto concreto della comunità internazionale, dall'altra comincia anche a rivolgere accuse dirette a quei Paesi che drammatizzando (a suo avviso) la situazione mettono la Cina in ulteriore difficoltà: e nel mirino, manco a dirlo, finiscono gli Stati Uniti di Donald Trump.

«Abbiamo urgente bisogno di mascherine sanitarie, tute protettive e occhiali di sicurezza», ha detto ai rappresentanti dei media stranieri la portavoce del ministero degli Esteri di Pechino Hua Chunying. Un appello che è stato già raccolto, tra gli altri, anche dalla Santa Sede, che già dal 27 gennaio ha provveduto a spedire gratuitamente in tre diverse province cinesi (Hubei, Zhejiang e Fujian) quasi 700mila mascherine con il sostegno della Farmacia Vaticana e delle comunità cristiane cinesi presenti in Italia. Allo stesso tempo, però, Hua ha rivolto precise accuse «ad alcuni Paesi» e in particolare agli Stati Uniti, la cui reazione allo scoppio dell'epidemia sarebbe stata «eccessiva». Quello di Washington è stato il primo governo a suggerire un ritiro parziale del personale delle sue sedi diplomatiche, ma anche a innalzare il livello di allerta di viaggio in Cina per i propri cittadini. «Tutto questo ha solo generato e diffuso il panico continuo, e ha dato il cattivo esempio», ha puntato il dito la portavoce della diplomazia cinese. Parole che sottintendono l'accusa grave di aver strumentalizzato l'emergenza sanitaria che ha colpito il Paese che è il principale rivale mondiale degli States per indebolirne l'economia e l'immagine internazionale.

Accuse che possono avere qualche fondamento, se si pensa all'importanza prioritaria che il braccio di ferro (commerciale e non solo) con Pechino riveste per un Trump alla ricerca proprio in questi mesi della riconferma alla Casa Bianca. Ma d'altra parte è difficile negare che proteggere il territorio nazionale da un'epidemia che ha indotto l'Oms a lanciare un'allerta globale costituisca una responsabilità assoluta per il presidente degli Stati Uniti.

Sta facendo la stessa cosa perfino Hong Kong, le cui autorità hanno disposto la chiusura di quasi tutti i confini terrestri con la Repubblica popolare: nella ex colonia britannica più di mille medici sono scesi in sciopero per ottenere questa misura dal governo filocinese, e la stessa governatrice Carrie Lam si è presentata in pubblico con una mascherina sulla bocca.

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