"Il voto in tutti gli Stati Usa manipolato da hacker russi"

Dossier svela intrusioni capillari nei sistemi elettorali «Un sistema molto più esteso di quanto immaginato»

"Il voto in tutti gli Stati Usa manipolato da hacker russi"

La denuncia di Robert Mueller, ribadita nella sua testimonianza di martedì scorso davanti al Congresso, secondo cui le interferenze russe nelle presidenziali Usa del 2016 furono «vaste e approfondite» trova nuove conferme. Ieri è stato diffuso un rapporto bipartisan della commissione d'inchiesta del Senato degli Stati Uniti, il primo di una lunga serie dedicata a rendere noti al pubblico dei risultati dell'inchiesta senatoriale non solo sulle presunte collusioni tra emissari di Mosca e lo staff di Donald Trump, ma anche sulle più ampie ramificazioni di quel complesso fenomeno di ambigui rapporti con il Cremlino che va sotto il nome di «Russiagate». Il rapporto contiene un'informazione precisa e inquietante, perché dà la misura dell'ampiezza dell'azione degli agenti russi: nelle elezioni del 2016 Mosca prese di mira i sistemi elettorali di tutti i 50 Stati americani. Non solo: a partire almeno dal 2014 e fino a tutto il 2017 se non oltre, il governo di Mosca aveva preso di mira le infrastrutture elettorali statunitensi a livello statale e perfino locale. Un tentativo di interferire nel voto di midterm 2018 era stato invece arginato dal Cyber Command di Washington. L'azione di disturbo ordinata dal Cremlino, dunque, aveva assunto dimensioni e modalità ben più vaste e potenzialmente dannose di quanto si era finora pensato (o saputo).

Nel rapporto della commissione senatoriale secondo quanto riferisce il New York Times si mettono in evidenza i rischi che corre il corretto svolgimento anche delle prossime presidenziali, fissate per il novembre 2020: basti pensare che ormai ovunque negli Stati Uniti il voto viene espresso elettronicamente, e dunque potenzialmente esposto a nefaste interferenze di hacker ostili. Il giornale newyorkese, per altro, informa che le agenzie di intelligence hanno imposto una serie di censure per motivi di sicurezza nazionale, sicchè parte del rapporto non è accessibile al pubblico.

Una seria indagine parlamentare, scevra per la sua natura bipartisan dal rischio di essere influenzata da pregiudizi politici, conferma dunque che la Russia di Vladimir Putin non solo ha agito in grande stile per condizionare o comunque disturbare il corretto svolgimento delle elezioni americane, ma che pare motivata a continuare a farlo, nonostante le sdegnate smentite ufficiali in arrivo da Mosca. E se rimane difficile, come confermato dal sostanziale fallimento dell'indagine del procuratore speciale Mueller, provare una responsabilità diretta di Donald Trump come beneficiario consapevole dell'intervento illegale di una potenza straniera, non può lasciare indifferenti il fatto che Trump eviti di prendere una posizione apertamente critica nei confronti di Putin su un argomento tanto delicato. Ancora in occasione del più recente incontro tra i due leader, al G20 di Osaka di un mese fa, Trump aveva reagito in tono ironico alla richiesta di un giornalista che voleva sapere da lui se avrebbe chiesto di persona a Putin di non interferire nelle prossime presidenziali americane. «Certo che lo farò», aveva replicato il tycoon diventato presidente con l'aria di chi risponde così solo perché obbligato a farlo.

Nello scorso dicembre, due dossier indipendenti prodotti sempre su richiesta del Senato Usa avevano documentato l'ampiezza del raggio d'azione della cosiddetta «fabbrica dei troll di San Pietroburgo», che l'intelligence americana ha identificato come

l'origine delle campagne russe a base di fake news tese a condizionare l'opinione pubblica Usa: la macchina russa aveva colpito non solo su Facebook e Twitter, ma era anche penetrata nei servizi offerti da Microsoft e Google.

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