Lo zinco è di nuovo oro A Bergamo riapre la miniera

Il giacimento è chiuso dall'82, ora un'azienda australiana lo fa tornare in funzione Il sottosuolo italiano è ricco di materie prime. Ma noi preferiamo comprarle all'estero

Lo zinco è di nuovo oro A Bergamo riapre la miniera

Questa storia inizia nell'800, s'interrompe negli anni ottanta del '900 e ricomincia nel futuro. Prossimo: 2016, quando tra Gorno e Oltre il Colle, comuni di poche anime distesi nella Valle del Riso bergamasca, riaprirà la storica miniera di zinco.

Due anni è il tempo previsto dalla Energia Minerals Limited , colosso australiano dell'estrazione, per rimettere in attività i cunicoli e binari che per circa due secoli sono stati spazio e tempo, fonte di reddito e d'identità di chi vive da queste parti. La società ci crede: ha atteso un lustro pur di ottenere concessioni e permessi necessari, ha investito 50 milioni in quello che è convinta sia un affare, agguantare quelle terre che nascondono possibili fonti di ricchezza. Un tempo erano gestite da aziende come la Aurera, di proprietà di Isacco, Alberto e Flaminio Modigliani (il padre del pittore e scultore Amedeo) o la Sileoni, di un avvocato genovese.

Ma per l'attività estrattiva servono capitali grossi, le italiane attorno al 1850 vengono comprate dall'inglese Crown Spelter e dalla Vieille Montagne belga. L'azienda britannica cessa l'attività nella bergamasca con la prima guerra mondiale, nel 1919 i belgi si prendono tutto, ma il vero cambiamento lo segna il regime fascista: esproprio delle miniere, gestione affidata a società a partecipazione statale, «S.A. Nichelio e Metalli», «Sapez», nel 1954 «Ammi», poi «Sanim», infine «Egam» (Ente gestione aziende minerarie); cambiano le sigle ma non la sostanza. «Erano dei calderoni dentro cui era finito di tutto», ricorda Luigi Furia, 77 anni, sindaco di Gorno per quasi un decennio a cavallo tra il '67 e il '78, un padre e un fratello che in quelle profondità a spaccare le pietre ci hanno lavorato una vita. Alla fine, negli '70, l'ente viene scorporato, «le miniere furono date in gestione all'Eni - ricorda Furia - che però non aveva quella vocazione, e che, comprando gas metano dall'Algeria, si accordò con il Paese sudafricano per comprare lì, a prezzo più basso, anche lo zinco». Nel 1982 la miniera chiude definitivamente. E adesso gallerie e discese a 500, 600, 700 metri di profondità stanno per riaprire. Non tutti gradiscono: per le stradine di Oltre il Colle sono comparse alcune scritte sui muri, «Lavoro per pochi, uranio per molti», c'è scritto. Gianvito Graziano, presidente del consiglio nazionale dei geologi, sostiene che «sfruttare queste materie prime è assolutamente necessario, ci sono Paesi Ue attentissimi all'ambiente che hanno una ricerca mineraria forte». Dalla Norvegia arriva il 7,5% della produzione mondiale, l'Italia è fanalino di coda, importa quasi tutto da Cina (leader mondiale), Canada, Sudafrica e Usa. L'intera Europa, secondo l'ufficio studi per le materie prime della Commissione, ha speso nel 2012 circa 300 milioni di euro per comprare fuori le «terre rare»: materie prime, come l'antimonio e il titanio, indispensabili nell'industria dell'hi tech, usate nelle componenti dei nostri pc e smartphone. Nello Stivale sono presenti in abbondanza: in Toscana, sempre secondo la Commissione Ue, c'è uno dei più grandi bacini al mondo di antimonio e titanio, sostanza presente anche in Liguria e Lombardia.

Anche il modo di lavorare in miniera è

cambiato: meno operai con l'elmetto e la luce in testa, più camici bianchi. Perché, fa notare Graziano, «oggi le tecniche si sono evolute, ci sono attrezzature come le talpe per cui non sempre bisogna mandare giù l'uomo».

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