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Zingaretti fa lo spaccone: "Se avessimo corso uniti..."

Il segretario glissa sulla Liguria, bacchetta Renzi e grillini e mette pressione a Conte: "Ora riforme"

Zingaretti fa lo spaccone: "Se avessimo corso uniti..."

«Nicola ha più c... che anima». La battuta di un dirigente dem sintetizza ironicamente il cosiddetto «sentiment» che si diffonde nel pomeriggio al Nazareno e dintorni. Bastano un paio di proiezioni per dare ben presto il senso della giornata: il segretario del Pd è il vincitore politico unico - e inaspettato - di questa tornata elettorale.

Non solo riesce a tenere una regione simbolo come la Toscana (su cui la macchina della propaganda dem ha astutamente drammatizzato per settimane esili rischi di sconfitta) e a confermare Campania e Puglia, ma porta a casa buoni risultati di lista un po' ovunque mentre i suoi competitor non incassano dividendi: «Avete visto? Calenda e Renzi sono spariti», ripetono i suoi.

Cosa farà ora di questa vittoria è tutto da capire, ed è difficile dedurlo dalle parole felpate con cui il leader celebra il risultato ed esprime (con grande misura) la propria «soddisfazione». C'è una punta di polemica verso gli «alleati» (dai Cinque Stelle a Renzi) che hanno scelto di non unirsi e di «frammentare» il quadro politico: «Se ci avessero dato retta - dice - e ci fossimo presentati uniti con tutta la maggioranza di governo, probabilmente avremmo vinto quasi tutto». Ma «per fortuna», sottolinea, «anche così abbiamo avuto risultati che ci rendono contenti». Insomma, è il messaggio: il Pd ha dovuto fare tutto da solo, ha vinto lo stesso e chi ha tentato di boicottare i suoi candidati è finito contro il muro. Ora, incassato anche il sì al referendum, avverte, bisogna «aprire il cantiere delle riforme, che dovrà andare avanti speditamente». È un avvertimento alla maggioranza, ma anche a Palazzo Chigi: Zingaretti vuole incassare prima possibile la legge elettorale, e il freno occulto finora opposto dal premier, che teme uno strumento di condizionamento così forte come la possibilità di andare al voto, non sarà più tollerato. L'arma della legge elettorale gli consentirebbe di rafforzarsi verso il governo (che al momento il leader dem non vuole toccare) e di dettare la linea come promette: «Non cado nel tranello dei rimpasti. Quel che mi interessa è incalzare il governo sulla assoluta priorità dei prossimi mesi spendere bene i miliardi del Recovery Fund e imprimere una svolta al Paese, perché se perdiamo questa sfida è finita».

Più sotterraneo, ma anche più immediato è il rafforzamento interno di Zingaretti. Bastava scorrere le agenzie ieri per leggere una serie infinita di baci alla pantofola del segretario, di proclami trionfali sulla sua leadership e i suoi meriti, di omaggi alla sua lungimiranza. «Zingaretti ha rimesso il Pd in campo, l'ha ricostruito dalla macerie. Ora il Pd ha combattuto le destre in tutto il Paese», flauta il ministro del Sud Giuseppe Provenzano. Arrivano gli endorsement del potente capo-delegazione Dario Franceschini e dell'ex premier Enrico Letta. Sulle chat dei parlamentari (che pensano ovviamente alla ricandidatura) circolano video celebrativi con Vasco Rossi che canta «sono ancora qua» e Zingaretti che sorride. I potenziali sfidanti interni sono indeboliti: Andrea Orlando paga il pessimo risultato in Liguria e il clamoroso flop dell'alleanza con M5s, che aveva fortemente voluto.

Stefano Bonaccini rientra per ora nei confini dell'Emilia Romagna, e lancia un segnale per frenare eventuali accelerazioni del congresso per confermare la attuale leadership: «Guai se ora ci chiudessimo a parlare di noi e tra noi». La minoranza riformista deve rinfonderare le armi. «Adesso però si gioca davvero la battaglia per l'egemonia culturale sulla coalizione», dice la ex ministra Valeria Fedeli.

Il segretario risponde con asprezza a chi, anche all'interno, lo accusa di subalternità ai grillini: «Altro che subalterni, venivamo dalla peggiore sconfitta del centrosinistra e ora siamo diventati il primo partito italiano».

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