Politici rissosi Altro che bipolarismo: sono tutti contro tutti

RomaGiù la maschera: noi il bipartitismo non ce lo meritiamo. Whigs e Tories hanno la fragranza del the mentre a noi piace l’aroma del caffè. Italianamente da bere in mille modi: tazza grande, ristretto, hag, corretto, shakerato, marocchino. Inevitabilmente amaro. Siamo il Paese del tutti contro tutti, della guerra fratricida, dello sgambetto interno, della pugnalata alle spalle, della zuffa tra inquilini, del campanile, delle fazioni e delle correnti. La semplicità anglosassone, o di qua o di là, destra e sinistra, in Italia non attecchisce e non attecchirà mai. Il pasticciaccio delle liste, per esempio, nasce da qui: non si cerca il candidato migliore per battere chi non la pensa come te ma si scova l’uomo più adatto per sbaragliare chi sta con te. Il nemico è il prossimo, nel senso di vicino, quello della porta accanto.
Siamo la Patria del capriccio, del distinguo, del «sì però», del «ma anche» dell’«a patto che», del baratto e dell’accordo. Sempre sottobanco, sempre per fregare il compagno di banco. Prendi a sinistra, dove quella extraparlamentare è frantumata in mille partitini, sigle, movimenti e il rosso è rosso ma con mille e impercettibili sfumature. I Verdi guardano in cagnesco i rifondaroli, i rifondaroli pestano i piedi ai comunisti italiani, i comunisti italiani snobbano i Verdi. O l’Italia dei valori, partito urlante per cannibalizzare il Pd, per saccheggiar loro consensi, per guidare l’opposizione, per infinocchiare il socio maggioritario della minoranza. E il Pd? Rincorre, scende in piazza per non perdere tram e consensi, ma lo fa guardingo, strisciando contro il muro, temendo coltellate nella schiena dai suoi e gli amici dei suoi. Un partito incancrenito dalla sindrome della trama che appena elegge un segretario complotta per disarcionarlo: è stato così con D’Alema, Fassino, Veltroni, Franceschini; è così con Bersani. La lotta continua. E nella zuffa va a finire che s’infilino anche i radicali, partito dell’egocentrismo, dello sciopero della fame, del megafono e del sit in, delle battaglie alte e nobili, dello spinello free che poi alla fine averli in squadra è più una sciagura che un beneficio.
E poi il centro, luogo indefinito dove accorrono tutti, affetti come siamo di democristianite. È il posto migliore da dove far Casini, politica poltiglia dei due forni, delle mani libere, del «sceglieremo di volta in volta», dell’«un po’ di qua un po’ di là», del doroteismo, del gruppo misto, del colore indefinito. È l’impero malconcio ma mai crollato della Prima Repubblica, il rifugio dove fuggire per rinascere, per offrirsi, per concedere e, naturalmente, pesare. Pesare di più. È la baita dell’occhiolino, il ricovero dei sempiterni scontenti, provengano essi da destra o da sinistra. È stato così per La Malfa; è stato così per Rutelli; è stato così per la Binetti.
E poi il centrodestra, sogno infranto berlusconiano che nemmeno il predellino è riuscito ad avverare. Anche il Popolo della libertà, infatti, è tale solo a livello di popolo, visto che il partito ancora arranca per via del virus dell’«ex». Gli antichi aennini guardano di sghembo i vecchi azzurri e viceversa, mentre il cofondatore del Pdl gufa e non vede l’ora di fare le scarpe al leader. Mille distinguo, mille altolà, mille moniti, mille ammonimenti sul partito caserma, la monarchia, e «questo Pdl non mi piace più». Affetto da colonnellume e correntismo, anche il giardino del Cavaliere è diventato orticello dove ognuno coltiva i propri frutti a scapito del vicino collega di partito. Liti, incomprensioni, bracci di ferro, sgomitate per piazzare la propria pedina nella casella giusta. E ancora: tira e molla e mercanteggiamenti per le candidature e alla fine non si arriva in tempo per consegnare uno straccio di lista in tribunale. E poi le sterzate di Bocchino, le sparate di Granata, i richiami di Cicchitto e le stizze di Bondi. Rimane la Lega, alleato fedele ma mordace, capace di mostrare i denti e azzannare se non ottiene il suo osso: federalismo ma non solo. Forte di un partito capace di mettere radici sul territorio come nessun altro a suon di gazebo, sezioni, circoli e ronde, si sta mangiando tutto il Nord senza guardare in faccia a nessuno. Men che meno gli alleati di governo.
Siamo la culla del proporzionalismo, dei distinguo, del pastrocchio, del franco tiratore, della contrada e del cambio casacca.

Siamo una fucina di partiti incapace però di fondere due poli, siano essi destra e sinistra, moderati e progressisti, repubblicani e democratici. Siamo sempre esagerati. Troppo facile scegliere tra due partiti. Noi siamo pirandellianamente così: uno o centomila. O ancora meglio: nessuno.

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