nostro inviato a Orvieto
Arrivano impanati, con un tuffo nell'olio bollente potrebbero tranquillamente dire "siamo fritti". A ridurli così, come ciclisti epici di un altro ciclismo, è il modernariato che va tanto negli ultimi tempi, con la riscoperta e la riproposizione nelle corse delle strade sterrate. L'operazione vintage è di indubbio impatto spettacolare. Qui al Giro, l'anno scorso la pioggia li ridusse a inavvicinabili statue di fango. Stavolta il sole li infarina e li soffoca in un polverone biblico. Tutto questo piace molto al pubblico, un po' meno ai corridori. Alla fine, il solito dibattito. Di Luca guida il movimento d'opposizione: «Il nostro si chiamerebbe ciclismo su strada. Noi non facciamo ciclocross e mountain-bike». L'abruzzese allega come pezza d'appoggio alle proteste la sua bici: è senza sella.
Inutile dire come dall'altra parte ci sia tutto quel mondo culturale che adora i valori di un ciclismo antico, che di polvere e fango, di fatica e sudore, di dolore ed escoriazioni fa pura poesia. Dicono questi: il percorso del Giro è noto da ottobre, c'è tutto il tempo per venire a provare i tratti più critici, chi non gradisce può starsene a casa.
Risultato complessivo della giornata retrò: un Nibali spettacolare lungo la discesa sterrata, un olandese coraggioso che riesce ad arrivare solo sotto la meraviglia del duomo di Orvieto, prendendosi pure la maglia rosa, i migliori tutti assieme a pochi secondi di distanza.
Alla fine, ci si guarda negli occhi e si scopre che i rischi maggiori, ancora una volta, questi funamboli della strada li corrono nei punti più innocui. Terrore massimo, per alcuni secondi ugualissimo a quello provato lunedì, quando nel finale resta sull'asfalto l'olandese Slagter. Nessuna porcheria viabilistica da parte degli organizzatori: il ragazzo viene abbattuto dal proprio massaggiatore durante un banale passaggio di borraccia, lungo un comodo rettilineo. Le conseguenze sono serie, ma per fortuna niente di drammatico: se la cava con trauma cranico e frattura di uno zigomo. Ma veramente drammatico è rivivere le scene di due giorni prima, con il ciclista disteso a terra e i soccorritori che si affannano a prestargli cure.
E' il destino inevitabile di questo Giro: ogni caduta, ormai, riaccenderà certi pensieri. E già che siamo in tema: dev'essere proprio per questo, per evitare un incubo lungo tre settimane, se l'altra sera la Leopard di Weylandt ha inaspettatamente deciso di abbandonare il Giro. Dunque la lunga macerazione si chiude con un'umanissima retro-retromarcia (subito non volevano correre, poi il papà di Wouter li ha convinti a ripartire nella stupenda tappa del ricordo di Livorno, quindi in albergo il cedimento definitivo). Non se la sentono più, preferiscono accompagnare la giovane vedova in Belgio, dove oggi arriverà anche la salma del povero Wouter per il funerale. Fanno bene, fanno male?
Il tema accende subito le discussioni già di prima mattina, mentre la carovana riparte dall'estremo scoglio di Piombino, con vista mare favolosa sull'isola d'Elba, per raggiungere Orvieto attraverso il verde unico della Maremma (voto dieci a questa fetta d'Italia e a chi l'ha infilata nel Giro). Restando al tema: sono in tanti a chiedersi se, per ipotesi, la Leopard avrebbe lasciato anche un Tour con il vero capitano Schleck in maglia gialla. E' un dubbio vagamente malevolo, anzi molto, ma aleggia. E' dettato anche dall'idea che la scelta di ripartire sarebbe comunque servita a perpetuare il ricordo del compagno morto per tre settimane, fino al traguardo di Milano.
In questi casi, nessuno ha i titoli per decidere quale sia la scelta giusta. Direi questo: a fare la differenza è sempre la sincerità. Se i compagni di Weylandt se ne vanno perché davvero non se la sentono più, giù il cappello e tutti zitti.
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