Tra meno di un mese Raniero Busco saprà se per la giustizia italiana è stato lui, il 7 agosto del 1990, ad uccidere Simonetta Cesaroni, la giovane impiegata massacrata in un ufficio di via Poma, a Roma. All'epoca Busco, addetto ai servizi a terra dell'aeroporto di Fiumicino, era fidanzato con Simonetta, ma inizialmente non finì tra i sospettati, come ha ricordato ieri davanti alla Corte d'Assise, nell'ultima udienza prima della conclusione della fase istruttoria, il giornalista radiofonico Giampiero Marzi. «In questura, durante la conferenza stampa, dissero che Busco era estraneo alla morte della ragazza in quanto quando avvenne il fatto lui lavorava», ha rivelato il cronista. Nessuno all'epoca pensò di mettere nero su bianco l'alibi del ragazzo che ora, a distanza di 20 anni, si ritrova sul banco degli imputati a dover rendere conto di quanto accaduto allora.
Ora il dibattimento è finito. Le prossime udienze sono state già fissate per la requisitoria del pm Ilaria Calò e per le arringhe dei difensori. Il 20 gennaio (o al più tardi il 26), dopo le repliche, la Corte dovrebbe entrare in camera di consiglio. Nell'aula bunker di Rebibbia è stato ascoltato anche Alessandro Biancini, un vicino della famiglia Busco, che ha detto di non ricordare nulla di quanto avvenne nel pomeriggio del 7 agosto del '90 quando, invece, stando al racconto di sua madre, nella precedente udienza, lui era in compagnia di Raniero, nell'officina sotto casa, in un orario più o meno compatibile con il delitto.
Il difensore di Busco prenderà la parola il 19 gennaio: «Il processo è finito - commenta l'avvocato Paolo Loria - ma a nostro parere non c'è una prova che possa reggere.
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