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Il pompiere: non so ancora come mi salvai

«Da allora sono un uomo nuovo. Non mi arrabbio più tanto facilmente, tutto mi scivola addosso. E ogni giorno ringrazio Dio per aver risparmiato me e mio fratello Michael».
È stato il primo a raggiungere il luogo della tragedia, quel maledetto 11 settembre di nove anni fa. John Morabito, vigile del fuoco di New York, 44 anni compiuti lo scorso agosto, ha rischiato di fare la fine dei suoi 343 colleghi, schiacciati inesorabilmente dal crollo delle Torri Gemelle, al World Trade Center. Per ore la sua vita è stata appesa a un filo. Ma lui non se n'è reso conto.
Oggi John Morabito è felicemente sposato con Dawn. Lui e lei entrambi «genitori adottivi» di Flappy, un prepotente ma adorabile chihuahua di 12 anni. Michael, fratello di John, ora ha 38 anni. Anche lui fa il vigile del fuoco. Anche lui ha rischiato di morire. Entrambi si sono cercati disperatamente, l'uno credendo che l'altro fosse morto. Tutti e due hanno messo da parte il dolore, si sono rimboccati le maniche per aiutare la gente in difficoltà. Alla fine si sono rincontrati, abbracciandosi in un lungo pianto liberatorio di gioia e singhiozzi.
John Morabito, se la sente di rivivere quel terribile giorno?
«Andai in caserma molto presto, per dare il cambio a un collega. Stavo facendo colazione quando il primo aereo si schiantò contro la Torre Nord. Saltammo dal tavolo della cucina e corremmo alla porta d'ingresso per essere accolti da un cielo nero e da tante macerie che cadevano dal World Trade Center».
Cosa vide? E come reagì?
«In tanti scappavano dalla torre, terrorizzati di essere colpiti dalle macerie che precipitavano in massa. Spingemmo alcune persone dentro la caserma e chiedemmo loro invano se sapessero cosa stesse accadendo. Credevamo che per errore un aereo si fosse schiantato nel Wtc, così saltammo sul nostro camion e non perdemmo tempo. Ero alla guida del Ladder Co. 10, uscii su strada, ma mi fermai quando capii che dei pezzi di corpi umani giacevano sulla strada. Dissi al mio collega, urlando: “Ci sono delle persone sotto le ruote”. Lui mi rispose: “Non c'è più nulla che possiamo fare per loro, ormai. Cerchiamo di aiutare le persone vive”. Costeggiai il grattacielo e mi fermai proprio davanti all'entrata principale della Torre Sud, perché un uomo in fiamme uscì fuori, correndo e urlando. Si era ustionato col carburante dell'aereo schiantato».
Che scenario si trovò davanti una volta entrato nella Torre Sud?
«Nell'atrio c'erano tanti cadaveri e tante più persone vive, ma ferite e sanguinanti. Decisi di restare lì per aiutare la gente ad evacuare. La mia compagnia, formata da tanti colleghi-amici, salì le scale per soccorrere la gente e spegnere il fuoco. Sentii alla radio della polizia che un secondo aereo si era schiantato contro l'altra torre. Fu allora che capii che stavamo subendo un attacco terroristico. Cercai di restare calmo per non spaventare le persone che scendevano nell'atrio, ma avevo paura. Dopo aver aiutato circa 4000 anime a uscire, la Torre Sud cominciò a collassare. E io ero ancora dentro».
Come riuscì a salvarsi?
«Le luci si spensero e fui colpito da un assordante rumore, come se fossi stato sotto un treno in frenata. Fui avvolto da una densa cenere e da un insopportabile polverone, al punto che non potevo più respirare. Non capii più nulla, caddi sulle ginocchia. Non so come, riuscii ad uscire. Mi resi conto di quanto fui fortunato d'essere ancora vivo. Molte persone e tanti colleghi non hanno avuto la stessa mia chance. Poi vidi che anche la Torre Nord si stava sgretolando. Corsi per allontanarmi, ma fui completamente avvolto dalla polvere del crollo. Mi sdraiai a terra nel parco, finché non si sollevò. Poi telefonai a mia madre per avere notizie di mio fratello Micheal, anche lui vigile del fuoco: era stato inviato al Wtc da circa un'ora, era da qualche parte in attività».
Ha avuto il coraggio di tornare indietro, nel cuore della devastazione…
«Sì, volevo cercare mio fratello. Ma non trovando alcuna traccia, pensai che se ne fosse andato per sempre. Cercai di non pensare di averlo perso, misi da parte il dolore per aiutare la gente in difficoltà. Dopo tre ore ero esausto. Vidi un idrante che stava perdendo dell'acqua, mi avvicinai per dissetarmi un po', morivo dall'arsura. Proprio mentre mi stavo inchinando per bere, mi sono visto camminare di fronte mio fratello. Era sopravvissuto e mi stava cercando. Ci abbracciammo l'un l'altro in un pianto disperato e liberatorio. Ce l'eravamo cavata. Decidemmo di tornare indietro tra le macerie e aiutare chi era intrappolato. Oltre 2700 persone furono uccise quel giorno, tra queste, 343 vigili del fuoco, 23 agenti di polizia, 37 guardie del porto. Tutti noi ci sacrificammo. Alcuni pagarono con la vita».
Cosa le ha lasciato questa esperienza alle torri?
«Mi ha cambiato la vita. Ora apprezzo ogni singolo giorno, parlo spesso con Dio e lo ringrazio per aver risparmiato me e mio fratello. Non mi arrabbio più molto facilmente, lascio che le cose mi scivolino addosso. Sono vivo, è questo quello che conta. Molte persone vennero al Wtc nei giorni seguenti per dare il loro contributo. Personale di soccorso, lavoratori edili, medici, volontari e persino 'rescue dogs', i cani-salvataggio. Ognuno diede il massimo.

Ma la ferita resta sempre aperta».

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