Alessandro Massobrio
Povere streghe di Triora! Finiscono di essere peggio trattate dagli storici che dagli aguzzini della Repubblica o dai domenicani dell'Inquisizione. È vero che la terra che le ricopre non può in nessun caso essere stata benedetta, visto e considerato che saepe et libenter ebbero rapporti di meretricio con il demonio in persona, ma che almeno a quelle zolle sia concessa la pace. La pace del vento e del sole, della pioggia e della neve, che a Triora, di questi tempi, a quasi ottocento metri sul livello del mare, è caduta a falde larghe e dense. Coprendo sotto il suo manto chi altro non chiede che essere coperto e, soprattutto, dimenticato.
Ed invece
solo a scorrere la bibliografia che in questi ultimi due secoli è andata ad ammassarsi negli scaffali di biblioteche universitarie italiane e straniere c'è da rimanere sconcertati. Saggistica di ogni specie, narrativa di ogni colore, esercizi di poesia a tempo perso, equilibrismi spericolati per confermare o smentire una posizione ideologica assunta a priori ma sostenuta a posteriori con le unghie e coi denti.
Intanto, la vicenda. Non consueta, per carità, ma comunque emblematica di un particolare periodo storico in cui le sicurezze dell'antica Europa cristiana andavano sfaldandosi sotto la minaccia di protestantesimo, islamismo - la cui marcia, dopo Lepanto, era stata rallentata ma non arrestata - e dei nuovi, anzi, antichissimi culti pagani che umanesimo e rinascimento avevano in qualche modo evocato dalle profondità della terra, dove dormivano un sonno secolare. Scatenandone la potenza ctonia, un po' come l'incauto Aladino aveva fatto, strofinando la lampada fatata e liberandone il genio.
Non un genio ma l'immagine di un dio cornuto, dal muso di caprone, chiamato dalle antiche popolazioni preistoriche Bekkos, sembra sia stata ritrovata, tra altri e non meno inquietanti graffiti, alle pendici del monte Bego (2872 metri sul livello del mare, all'interno del parco nazionale del Mercantour). Quasi a delimitare il perimetro di un territorio in cui la natura si compiace a volte di mostrare - come hanno notato molto opportunamente Minnie Alzona e Quirino Principe - il proprio volto tenebroso e sulfureo.
In questi luoghi, nel 1587, Girolamo Del Pozzo, vicario del vescovo di Albenga, e, insieme con lui, il vicario dell'inquisitore di Genova incominciano un processo contro numerose streghe. Da tempo, infatti, erano trapelati dalla lontana podesteria del Ponente ligure sino alla città capoluogo dicerie e racconti circa malefici operati da forze oscure sulla popolazione ed i suoi beni.
I due ecclesiastici vanno per le spicce. In un periodo relativamente breve, raccogliendo indizi, ascoltando confessioni, prestando orecchio a presunti testimoni, giungono ad accusare di stregoneria tredici donne, quattro ragazze ed un fanciullo. Occorre però costringere le accusate a confessare e lo si fa - secondo la prassi giudiziaria del tempo - con l'uso della tortura. È a questo punto che le cose cominciano a sfuggire dal controllo dei due uomini di Chiesa.
Una anziana e nobile triorese, Isotta Stella, non regge ai tormenti. Si getta nel vuoto da un altissimo balcone. La caduta rovinosa la storpia, tanto che la morte la coglie tre giorni dopo. È a questo punto che entra in scena il Consiglio degli Anziani, antico parlamento aristocratico a cui la Repubblica concede una certa autonomia amministrativa.
Agli Anziani, dunque, non garba il modo di condurre le indagini dei due sacerdoti. L'imprigionamento e la morte di Isotta Stella, che - come si è detto - apparteneva al patriziato locale deve costituire una causa non piccola del malcontento. Ma oltre a questo, le critiche si rivolgono al metodo stesso con cui sono condotte le indagini, basate spesso sulla semplice delazione.
Insomma, il parlamento locale chiede a Doge e Senato di far maggior luce e Doge e Senato, che probabilmente non attendevano altro, intervengono in due momenti diversi. Prima invitano i due inquisitori a fornire spiegazioni più precise e dettagliate circa i loro metodi investigativi, poi, visto e considerato che i chiarimenti di Del Pozzo e del suo collega risultano poco attendibili, prendono direttamente in mano l'inchiesta.
È un comportamento comprensibilissimo, considerato la scarsa simpatia di cui godeva l'Inquisizione in Italia, dove i piccoli stati locali, per gelosia giurisdizionalistica, temevano che la loro autorità potesse essere in qualche modo ridotta o condizionata dagli inquisitori romani. I quali però, ancora una volta, paradossalmente, si rivelano assai più equilibrati dei magistrati chiamati ad operare dal potere civile. E Triora ci fornisce, a questo proposito, una ulteriore conferma.
Poco tempo dopo, infatti, Doge e Senato conferiscono ad un solo magistrato, il laico Giulio Scribani, il titolo di commissario straordinario per i delitti di stregoneria a Triora e da questo momento le cose davvero cominciano a precipitare.
Da quanto riferiscono le cronache del tempo, infatti, Scribani, mano a mano che le indagini si sviluppano, sembra prendere sempre più sul serio il suo compito. Nessun dubbio, nessuna esitazione, nessuna incertezza. Il commissario fiuta fetore demoniaco ovunque e ovunque streghe o presunte tali finiscono nelle mani della giustizia.
Intanto, vengono spedite a Genova le tredici infelici che erano state arrestate precedentemente. Ma il malleus, il martello di Scribani, sembra non conoscere sosta. Esso batte instancabilmente alle porte delle case di Triora e dagli usci spalancati fuoriescono spesso e volentieri streghe ree confesse dei più tremendi reati. Non si tratta più soltanto di presunto olio venefico ritrovato in qualche deserto solaio, di una vacca morta in circostanze misteriose, di improvvise perturbazioni atmosferiche. Quattro donne rivelano all'inquisitore, nel corso della tortura, reati molto più gravi, come quello, per esempio, di aver guastato fanciulli. Vale a dire, provocato malattie che si sono concluse con la morte delle vittime.
Scribani, per quanto nuovamente richiamato dal Senato della Repubblica ad una più attenta valutazione degli indizi, sembra comunque procedere come un torello davanti ai cui occhi qualcuno si sia premurato di sventolare un panno rosso. Una certa Franchetta, ad esempio, sottoposta per lunghe ore al tormento del cavalletto, stringe i denti per sopportare il dolore, ma a lui, a questo angelo del giudizio, disceso con tanto di armatura dai cieli, sembra soltanto che se la rida, resa da satana indifferente alle pene di questo modo.
In breve, altre cinque bagiue - come nel dialetto locale sono chiamate le streghe - partono via mare per Genova, dopo essere state giudicate passibili della pena capitale. E tutto lascia pensare che passibili lo sarebbero davvero se, ancora una volta, alcuni cardinali del Sant'Uffizio - un Sauli ed un S. Severina, tra questi - non opponessero veti e proteste. A cui fa seguito una sorta di revisione del processo dalla quale lo Scribani ne esce tanto male da essere, anche se per breve periodo, scomunicato.
Una vicenda amara e sgradevole, nel corso della quale, in complesso, cinque donne concludono prematuramente la propria esistenza. La concludono per le sofferenze cui sono sottoposte, per la lunga reclusione in carcere, per gli strapazzi a cui non regge la loro età avanzata ma non certo perché arse sul rogo, come avviene nella Spagna degli auto da fé, nella Ginevra protestante o nella Nuova Inghilterra dei Padri Pellegrini, dove a Salem con le streghe si procede in maniera assai più spiccia.
Insomma, come più volte hanno tentato di dimostrare Massimo Introvigne e Rino Cammilleri, una ennesima dimostrazione di quel paradosso - indigeribile per la mentalità moderna - secondo il quale il tribunale del Sant'Uffizio avrebbe svolto, tutto sommato, un ruolo di moderazione e di mediazione in temi così tragici e scarsamente moderati come lo sono la possessione ed il commercio con satana.
Ma torniamo a Triora e alle sue streghe, salite all'onore delle cronache a partire dal lontano 1898, anno in cui, dopo lunghe ricerche nell'Archivio di Stato di Genova, il professor Michele Rosi pubblicò un libricino, denso di rimandi e di note, sui Processi di stregoneria e relative questioni giurisdizionali nella seconda metà del secolo XVI.
Lavoro serio, documentato, in armonia con il clima positivistico, che allora dominava gli studi accademici in Italia, il testo si rivela un autentico prodigio di misura e obiettività se paragonato con certi prodotti di recente confezione, un esempio dei quali può essere fornito da Triora Anno Domini 1587 di Ippolito Edmondo Ferrario (De Ferrari, Genova 2005), già recensito su queste pagine.
Che cosa, infatti, rimane delle streghe in libri come questo? Poco, anzi, diremmo pochissimo. Le streghe sono, infatti, in primo luogo, delle rivoluzionarie che intendono contestare l'ordine stabilito. Guaritrici, sciamane, eredi di saperi che il cristianesimo ha prevaricato e cancellato, un poco prostitute, un poco fattucchiere, queste femministe ante litteram si divertono con i soldati genovesi della guarnigione di Triora, attirando su di sé le ire dei possidenti locali. I quali al momento opportuno, quando una grave carestia flagella la popolazione, scaricano su queste infelici, come su capri espiatori, ogni responsabilità degli eventi.
E il diavolo? Beh, circa il diavolo il discorso è più complesso. Intanto se ne dà come scontata l'assoluta inesistenza, quasi si trattasse di un prodotto dell'immaginario collettivo. A questo punto, inizia un gioco comparato di rimandi e parallelismi. Si chiamano in causa Dioniso e Diana, lamie e vampiri, mitologia preistorica e mitologia classica.
D'accordo, siamo sicuri che le streghe di Triora siano state delle povere allucinate che scambiavano fischi per fiaschi. Ma lasciateci almeno le certezza che satana sia satana. E non una sua controfigura.
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