Povero italiano, lingua massacrata dagli «spericolati»

Caro Granzotto, a proposito dell’uso corretto della lingua italiana cosa ne dice di quell’intrattenitore-giornalista che nel corso di una trasmissione Rai si è così espresso: «Preso dalla fame si cocette un uovo sodo»? Ma a scuola cosa insegnano? Cosa si fanno le riforme a fare? Stiamo diventando un popolo di semianalfabeti che amano però infiorare le loro bestialità con parole inglesi o inglesizzanti. Almeno alla Rai (oggi si dice malamente «in Rai») dovrebbero ripristinare l’esamino prima dell’assunzione (si ricorda il film dove Alberto Sordi interpretava il «dentone»? Si ricorda l’esame che dovette sostenere?).

Quando avevo parte attiva nei giornali, all’occasione non mancavo di mettere in guardia i giovani praticanti nel maneggio dei verbi dalla coniugazione «difficile». Ora che sono di gran moda i corsi di giornalismo o di scienza della comunicazione che dir si voglia, facoltà universitarie tra le più frequentate, ma a conti fatti fabbriche di disoccupati, mi sono sempre chiesto se fra le materie di studio ci sia l’italiano. E, per i candidati al giornalismo televisivo, la dizione. Non credo, stando a quel che si legge e si sente. Eppure l’intrattenitore-giornalista al quale lei si riferisce, caro Carboni, invece di buttarsi allo sbaraglio ricorrendo al verbo «cuocere» che tanto gli risulta ostico, avrebbe potuto ripiegare su «cucinare» e cavarsela brillantemente dicendo: «Preso dalla fame si cucinò un uovo sodo». Solo se avesse frequentato diligentemente la scuola dell’obbligo se ne poteva uscire con un fenomenale: «Preso dalla fame si cosse un uovo sodo», perché quello, «cosse», è il passato remoto di «cuocere». Quanti «benedivo» e «maledivo» leggiamo e sentiamo - eh, caro Carboni? - in luogo dei corretti «benedicevo» e «maledicevo»? E la pioggia torrenziale di «esigìto» in luogo di «esatto»? E l’abuso all’intransitivo del verbo «sposare»? «Ma come, non lo sai? Giovanna ha sposato!», quando basterebbe, per non massacrare troppo la materna nostra lingua, il calzante: «Giovanna si è sposata». Ora che mi viene in mente, altro participio passato preso sotto gamba è quello del verbo «succedere». Che fa sì «successo» e «succeduto», ma a rigor di bazzica l’uno ha un significato che non è quello del secondo. Berlusconi non è successo a Prodi, ma a lui succeduto. Non è succeduto un fatto strano, ma caso mai è successo. E, ancora, «soddisfavo» e «soddisfassi» che hanno finito per scalzare i genuini «soddisfacevo» e «soddisfacessi». Non è che si voglia fare i difficili, caro Carboni, ma visto che quella italiana è una lingua ricca (anche se non ricchissima) perché intestardirsi, come s’intestardiscono gli asini, a usare verbi dei quali non si padroneggia la coniugazione? C’è sempre una alternativa, basta sforzarsi un po’ e la si trova.

Insomma, ci si arrangia anche perché son finiti i tempi dei Basilio Puoti del quale si racconta che in punto di morte chiamò a sé i suoi cari e una volta avutoli intorno annunciò loro: «Me ne vado». Poi, con un filo di voce aggiunse: «Però si potrebbe dire anche me ne vo’». E lo fece.

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