Il premio Pulitzer è digitale. Anche nel romanzo

Il prestigioso premio giornalistico assegnato per la prima volta a un’inchiesta pubblicata solo on line. Nella narrativa vince un libro in cui per 70 pagine la storia è raccontata con "diapositive" di PowerPoint

Il premio Pulitzer è digitale. Anche nel romanzo

Il giornalismo è morto, viva il giornalismo. C’è chi scrive sempre più spesso, soprattutto negli Stati Uniti (ma anche da noi la tendenza si afferma: vedi le tesi di Enrico Pedemonte in Morte e resurrezione dei giornali, Garzanti, e quelle di Bruno-Mastrolonardo nel recente La scimmia che vinse il Pulitzer, Bruno Mondadori) che per uno dei più antichi mestieri del mondo il Rinascimento stia per arrivare, proprio quando si danno per spacciati la carta stampata e il primato della notizia. Ma negli Stati Uniti ogni cambiamento è un’opportunità e l’assegnazione dei Pulitzer 2011, avvenuta l’altroieri, lo dimostra.
Caduta la barriera dell’ammissione per le testate online, saltati i pregiudizi per cui chi non esce in edicola è giornalista di «serie B», il sito ProPublica, alimentato da 32 reporter specializzati nel non profit, che lo scorso anno si era aggiudicato il riconoscimento per il «giornalismo investigativo», ha fatto passi da gigante.

Il board - di inclinazioni sempre più liberal - della Columbia University di New York, che ogni anno amministra il Pulitzer, lo ha favorito per la sezione più ambita: primo posto nella categoria «nazionale», dedicata a chi produca «un esempio notevole di reporting nazionale, usando ogni strumento giornalistico disponibile, inclusi testi, video, database, multimedia, presentazioni interattive o loro combinazioni, stampati, online o entrambi».

Jesse Eisinger e Jake Bernstein di ProPublica si portano a casa i 10mila dollari più prestigiosi della storia del giornalismo per essersi esercitati sul tema su cui l’America intera è sensibile: hanno raccontato ai lettori le discutibili pratiche di Wall Street, quelle che hanno portato al crac la nazione. E si sono fatti capire da neofiti e raggirati della finanza proprio usando quegli strumenti digitali tanto snobbati dai colleghi della carta stampata, battendo Bloomberg e Wall Street Journal. Se fino a un paio di anni fa il giornalismo tradizionale considerava i giovani reporter digitali solo velleitari parassiti dell’informazione sul campo - basta ricordare la lotta deontologica del ruvido reporter da «prima pagina» Russell Crowe con la collega blogger Robin Wrigth Penn in State of Play - oggi parole come iperlocalizzazione, ipergiornali, lettori nativi digitali, smartphone news, sembrano scaglie di pelle di una muta che per questa professione non si è ancora compiuta. Prova provata ne è la scioccante notizia che proprio per la categoria «Breaking News» - quella in cui vince saper dare la notizia al meglio in tempo reale, e se gli smartphone non si usano per l’ultim’ora, allora quando? - quest’anno non è stato assegnato alcun Pulitzer.

Che il digitale non sia solo cannibale di contenitori, ma di contenuti è dimostrato dal Pulitzer 2011 per la fiction, in passato assegnato a William Faulkner, John Updike, John Steinbeck, Saul Bellow, Ernest Hemingway, Cormac McCarthy. Dove videro il nocciolo dell’umano questi grandi lo sappiamo, dove lo ha visto la vincitrice di quest’anno, la 48enne di Chicago Jennifer Egan, ce lo dice la motivazione, che definisce il romanzo A Visit from the Goon Squad (pubblicato da Alfred Knopf, in Italia uscirà per minimum fax a novembre con il titolo Il tempo è un bastardo) «un’investigazione originale di come si cresce e si invecchia nell’era digitale».
La storia della Egan, che negli Usa è una scrittrice molto glamour, va avanti e indietro nel tempo - dal 1980 al 2020, nello spazio - da New York a Napoli a un safari africano - passa con disinvoltura dalla prima alla terza persona e dedica a ciascun personaggio da uno a tre capitoli, il che la rende una specie di collage di racconti brevi.

Filo conduttore: la musica. Ma anche il genio, la morte, l’amore, la libido. E le vite avventurose che grandi personaggi avrebbero vissuto in un romanzo tradizionale vengono a un certo punto riassunte da slide di PowerPoint.

Qui l’utilizzo di forme di scrittura «non convenzionali», quella che si chiamerebbe «ricerca stilistica», si risolve in un’audacia senza precedenti, che lascia un po’ perplessi: 70 pagine redatte con quel software tanto amato dai manager e dai docenti universitari, che permette di presentare sotto forma di schermate successive di sintesi per punti praticamente qualsiasi concetto - dal pensiero di Kant al funzionamento di una pompa idraulica - non saranno troppe? La vera notizia però è che i primi ad esserne scocciati sono i fanatici del digitale: «I capitoli in powerpoint non si riescono a leggere con Kindle», posta su Amazon un deluso consumatore di ebook.

«La stampa è così piccola e gli sfondi così scuri, le solite font così inadatte che nemmeno con la lente ci capisco qualcosa». È il digitale, bellezza.

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