Fausto Bertinotti proclama a gran voce che il «diritto alla manifestazione» è un elemento irrinunciabile della democrazia. Potremmo anche dirci d’accordo con lui, in linea di principio, se il diritto alla manifestazione non diventasse, nell’interpretazione bertinottiana, un omaggio sfrontato all’ambiguità, al tenere il piede in due scarpe, al privilegio. Diventa cioè un diritto grazie al quale un uomo politico può pretendere e ottenere tutti gli onori e i riconoscimenti - onorifici e materiali - che dai suoi ruoli ufficiali discendono, senza tuttavia assumersi, in cambio, nessun dovere.
Vanno bene i velluti, gli ori, gli stucchi di Montecitorio, vanno bene le innumerevoli comodità di cui il presidente della Camera è gratificato, vanno bene il cashmere modaiolo e la partecipazione festosa ai riti delle terrazze romane. Ma un minimo di contegno e di riservatezza adeguati alla terza carica dello Stato, quelli no, non vanno bene.
Il rifondatore che guida un ramo del Parlamento può prendersi il lusso, se gli gira, di scendere in piazza per manifestare contro Bush, il Capo d’uno Stato che è anche il nostro più importante alleato, che rappresenta una gloriosa democrazia, che sarà accolto dalle massime autorità - le altre, non lui Bertinotti - che merita non diciamo necessariamente simpatia o ammirazione, quelle devono essere spontanee, ma sempre rispetto.
rmai siamo al punto, dalle parti di Rifondazione e dintorni, che se viene nel nostro Paese un qualsiasi caudillo demagogo che soffoca la libertà d’informazione bisogna fargli festa - purché si proclami progressista - in caso contrario si è bollati come razzisti e reazionari. Ma se viene il Capo della maggior democrazia del pianeta, non soltanto gli scervellati alla Francesco Caruso ma anche un leader di partito ritenuto serio come il subcomandante Fausto si sente autorizzato a sbraitargli contro. Questa è subordinazione ottusa e fanatica degli interessi nazionali e delle esigenze di politica estera alla propria ideologia. Che è l’ideologia comunista e - non per essere pignoli - mi riesce difficile annoverarla tra le trionfatrici della storia.
Se Bertinotti, avendo saputo che Bush viene in Italia, si fosse dimesso per non avere l’incombenza - per lui sgradevole - di stringergli la mano, lo avremmo capito. Macché, non si muove dalla poltrona ma nemmeno vuol muoversi dalla piazza. Molto, troppo comodo. Prenda esempio, Bertinotti, dai notabili comunisti - Nilde Iotti, Violante, Napolitano - che sono stati anche loro la terza carica dello Stato, e hanno saputo dare la dimostrazione di meritarselo.
Non che avessero cambiato convinzioni politiche. Semplicemente non ritenevano di dover immolare ad esse la decenza istituzionale. Bertinotti invece pensa d’avere la licenza di folleggiare rimanendo presidente. E molto a sproposito cita Riccardo Lombardi secondo il quale se uno andava al governo doveva però mantenere, con il suo partito, una completa autonomia dal governo stesso. Lombardi propinava assurdità pseudo intellettuali con una certa disinvoltura, ma aveva un fondo di onestà in quanto non amava le poltrone. Mi pare che Bertinotti sia di diverso avviso. Il posto che occupa gli piace, purché comporti la possibilità di far chiasso contro uno statista ospite. Con analoga sicumera il presidente della Camera ha definito impresentabili gli industriali italiani.
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