Politica

Presidente Mani di forbice costa poco, taglia tanto e mette all’asta i morti...

Marco Vinicio Guasticchi, primo non comunista a guidare la Provincia di Perugia col crocifisso sul tavolo. "La nomenklatura rossa non mi voleva. Nel Pd mi sento un ospite indesiderato"

Presidente Mani di forbice 
costa poco, taglia tanto 
e mette all’asta i morti...

Avendo per dirimpettai una presidente della Regione che si chiama Catiuscia, come la lanciarazzi sovietica, e un sindaco che si chiama Wladimiro, come Putin, il presidente della Provincia di Perugia, Marco Vinicio Guasticchi, impone fin dal nome di battesimo l’alterità della sua figura. In effetti, nonostante guidi una Giunta di centrosinistra, è stato il primo non comunista, dal dopoguerra a oggi, a candidarsi e a vincere in una terra di rossi nonostante l’aperta ostilità dell’ex Pci, che nella sua cittadina d’origine, Umbertide, alle ultime politiche ha portato a casa il 59,46% dei voti, dopo aver mietuto per mezzo secolo percentuali bulgare oscillanti fra il 70 e l’80. Di sicuro è il primo a tenere sulla scrivania una copia del crocifisso di San Damiano, dono del frate guardiano della basilica francescana di Assisi.
Suo padre Giancarlo giura che no, non lo chiamò come il protagonista del romanzo Quo vadis? dopo aver visto al cinema il pagano Marco Vinicio (Robert Taylor) rapito dalla bellezza della cristiana Licia (Deborah Kerr). Ma il primo a non crederci è proprio il figlio. Il quale meriterebbe comunque un aggiornamento del film che gli fu cucito addosso nel 1962 al fonte battesimale: Mani di forbice. Perché come taglia Guasticchi, non taglia nessuno.
Qualche fermo immagine. Scena 1: il neopresidente fa fuori prim’ancora d’essersi insediato uno dei cinque autisti della Provincia e si presenta alla cerimonia d’investitura a cavallo del suo scooter Piaggio Beverly 300, che usa regolarmente tutti i giorni nel tragitto casa-palazzo e viceversa. Scena 2: i contratti delle autoblù, in realtà 6 Volkswagen Passat nero Quirinale affittate fino al 31 dicembre 2010 e utilizzate per prelevare e riaccompagnare presidente e assessori nelle rispettive abitazioni, vengono disdetti. Scena 3: i rimanenti quattro autisti in pianta organica si riducono a due, di cui uno indispensabile per guidare il pulmino che da allora trasporta la Giunta al completo agli appuntamenti istituzionali. Scena 4: altre 43 auto di servizio finiscono nella lista delle dismissioni. Scena 5: su 37 dirigenti, 7 sono cortesemente accompagnati alla porta. Scena 6: i funzionari che in precedenza non avevano l’obbligo di timbrare il cartellino, ricevono il badge da strisciare nel marcatempo, tesserino senza il quale non possono né entrare né, soprattutto, uscire dagli uffici, lo sport in assoluto più praticato fino all’anno scorso, visto che sei dipendenti furono sospesi per due mesi dal servizio e ora sono sotto procedimento disciplinare per aver varcato i tornelli nella direzione sbagliata durante l’orario di lavoro.
Siccome ha mantenuto il posto all’Unicredit, Guasticchi a maggio ha percepito solo 1.693,15 euro d’indennità di carica, che si ridurranno a 1.574,62 per effetto del 7% di taglio introdotto dalla manovra finanziaria, il che ne fa - a suo dire - il presidente di Provincia meno pagato d’Italia. Sul punto è in grado, da bancario, d’essere molto preciso, perché il suo predecessore Giulio Cozzari, che percepiva 8.000 euro lordi al mese (pari a circa 6.000 netti), con uno spettacolare beau geste abbassò unilateralmente i compensi all’intera Giunta addirittura del 40%, «solo che lo fece un mese prima d’andarsene, ben sapendo che dopo dieci anni di mandato non avrebbe potuto ricandidarsi», annota il successore, «e comunque la sua liquidazione fu calcolata sull’indennità piena...». La perfida annotazione di Guasticchi non deve stupire: è il suo modo per restituire con gli interessi l’affetto che la nomenklatura comunista - a cominciare da Maria Rita Lorenzetti, ex presidente della Regione Umbria, fino ad Alberto Stramaccioni, segretario provinciale del Pd - gli ha sempre dimostrato.
Sposato con Alessandra, una dipendente della Regione, padre di Matilde e Lavinia (15 e 4 anni), due lauree (scienze politiche e scienze della comunicazione), giornalista, scrittore, sindacalista della Fabi, nel genoma l’alacrità degli umbri e dei friulani abituati da secoli a ricostruire dopo i terremoti (la madre Mariella è udinese), cintura nera secondo dan di judo, appassionato di ippica, Marco Vinicio il Potatore aveva già dato buona prova di sé nel 2008, quando da assessore al Bilancio e al Patrimonio del Comune di Perugia decise di mettere all’asta i morti. Non sto scherzando: accortosi che nel cimitero monumentale vi erano parecchie tombe di fine Ottocento abbandonate, e in mancanza di eredi ai quali inviare l’ingiunzione di restauro, Guasticchi pensò bene di vendere al miglior offerente i sepolcri, inclusi i resti mortali che vi erano tumulati. Ne ricavò quasi un milione di euro. D’altronde la base d’asta era da record: 240.000 euro la cappella del musicologo Riccardo Rossi Schnabl, amico fraterno di Giacomo Puccini e Pietro Mascagni, impreziosita dal bassorilievo di una defunta con un mazzo di rose che secondo la leggenda profumano nell’anniversario della morte; addirittura mezzo milione di euro il mausoleo Cesaroni (niente a che vedere con la fiction di Canale 5). Per il quale però si fece vivo in extremis un nipote pietoso: il nonno aveva già perso, giocandoselo a carte in una sola notte, il Palazzo Cesaroni dove oggi è alloggiata la Regione Umbria e non sembrava il caso di sloggiarlo anche dall’estrema dimora.
Lei è per la finanza creativa, come Giulio Tremonti.
«E per i blitz. Ho organizzato uno sbarco degno dei marines sull’isola di Polvese, 30 ettari di paradiso naturale al centro del lago Trasimeno. In dieci giorni abbiamo ripristinato castello, convento e verde in stato d’abbandono da anni. Ora è il paradiso della vela, del kitesurfing e delle mountain bike».
Odia le autoblù.
«L’unico inconveniente è che, quando vado con gli assessori in visita nei Comuni, i vigili urbani non ci riconoscono e non vogliono far entrare il nostro pulmino nei centri storici».
Gli autisti non può mica licenziarli.
«Sono agenti: tornano ai loro compiti. L’organico della polizia provinciale è già passato da 75 a 110 uomini con la sola mobilità interna. Arriveranno a 140. A breve li doteremo di pistola Beretta e manganelli. Li piazziamo davanti alle scuole all’entrata e all’uscita degli studenti per impedire lo spaccio e il bullismo».
Copia dalla Lega.
«In Umbria è la Lega che copia da me».
Quanto guadagna col doppio lavoro, banca più politica?
«In banca 40.000 euro netti l’anno, in Provincia 18.000».
Dev’essere dura conciliare le due attività.
«Rubo tempo alla famiglia. E ho la fortuna, come funzionario dell’Unicredit, d’essere valutato a budget, non dalla presenza fisica sul posto di lavoro».
Ho visto il suo spot elettorale: «Provincia amica. Perché sarà più vicina ai cittadini». In passato era lontana?
«No, ma s’era creata una pericolosa frattura fra chi amministra e chi è amministrato. Io sono qui dalle 8 di mattina alle 8 di sera. Ricevo in media 20 cittadini al giorno, di più non ci riesco. Basta prendere appuntamento. Parlo con tutti».
Com’è arrivato in politica?
«Ci sono nato. Mio padre s’è fatto 43 anni nelle istituzioni: prima come impiegato e segretario comunale a Umbertide, poi come direttore generale della Provincia. Ho passato l’infanzia qui dentro, conosco questo palazzo meglio di casa mia. Ho imparato a guidare facendo avanti e indré sulla Fiat 127 verde di papà giù in cortile, in attesa di tornare con lui a Umbertide».
Ma sarà pure entrato in un partito.
«Nel movimento giovanile della Dc, area Zaccagnini. Avevo 18 anni. Quando Mino Martinazzoli seppellì la Dc, ero vicino a lasciare la politica. Poi ho fatto la trafila di molti ex democristiani: Ppi, Margherita e infine Pd».
Poteva entrare direttamente nel Pci, come tutti da queste parti.
«Si figuri. Scelsi la sinistra dc proprio perché a Perugia era la più combattiva nell’opporsi ai comunisti. I dorotei andavano un po’ di qua e un po’ là, cercavano l’accomodamento con i compagni. Io invece sono uomo di trincea».
Sulla copertina del suo libro Onorevoli uscito nel 1994 mise la foto di Silvio Berlusconi. Poteva entrare in Forza Italia.
«Il brand Berlusconi tirava molto già allora. Era un’immagine insolita, di un premier pensieroso: mi colpì. Ma non potrei mai stare nel centrodestra con Umberto Bossi che fomenta la divisione dello Stato unitario».
Intanto la Lega ha eletto per la prima volta un consigliere regionale anche in Umbria.
«Infatti dalla Lega bisogna copiare le cose buone, a cominciare dalla presenza sul territorio. Noi politici dobbiamo sporcarci le scarpe, come dice Luca Zaia, governatore del Veneto. La campagna elettorale l’ho fatta con la mia Volvo C70 e due amici d’infanzia, Giorgio Galvani e Livio Giannini, che ora sono diventati uno il portavoce e l’altro il capo della segreteria. Quindicimila chilometri in un mese».
Il Pd non la voleva come candidato.
«Si sono inventati persino le primarie per cercare di stopparmi. Le ho vinte con quasi l’80% dei suffragi».
Ma si sente a suo agio nel Pd?
«Non molto. Ritengo che non interpreti le reali esigenze degli elettori. Anziché coltivare la base, s’è arroccato su logiche elitarie e verticistiche».
Meglio Walter Veltroni o Pier Luigi Bersani, come segretario?
«Sicuramente Veltroni. Con Bersani siamo tornati indietro. Nel Pd s’avverte un malcelato fastidio contro chi non proviene dal Pci. Mi sento un ospite indesiderato».
Perché in Umbria si piantano fagioli e crescono comunisti?
«È una regione agricola come l’Emilia Romagna, terra di lotte bracciantili. Ci aggiunga l’anticlericalismo, retaggio del millenario dominio dello Stato Pontificio. In Borgo 20 Giugno, dove nel 1859 i soldati papalini affogarono nel sangue la rivolta dei perugini, per 70 anni il grifo sul monumento ai caduti ha artigliato la tiara del Papa re: fu chiamato uno scultore a fargli mollare la presa solo dopo i Patti Lateranensi. Pensi che negli scantinati della Provincia ho appena recuperato un enorme busto di Vittorio Emanuele II, che avevo scoperto durante le mie scorribande infantili, recante questa epigrafe sul piedistallo: “Qui dove per secoli annidò paurosa la tirannide teocratica, Perugia volle posta la effigie venerata del Re liberatore”».
E finita la tirannide teocratica votano a sinistra anche i fraticelli di Assisi e le consorelle di Santa Chiara.
«Gioacchino Napoleone Pepoli, che ebbe tra i suoi avi Napoleone Bonaparte e Gioacchino Murat, nel 1860 fu nominato commissario generale a Perugia col preciso scopo di spogliare il patrimonio di conventi e monasteri dell’Umbria, essendo evidente, come gli scrisse Cavour, che “mai potrà essa camminare nella via del progresso se deve sottostare al peso di 10.000 frati”».
Com’è che in Umbria il pensiero unico è andato in crisi?
«È in crisi il Pd. La gente non obbedisce più ai politici asserragliati nei palazzi del potere. Il partito è stato intellettualizzato, ha privilegiato i professori rispetto al popolo, ha perso i contatti con la base».
Sia sincero: a che servono le Province?
«Servono eccome. Semmai sono le Regioni, le Comunità montane, i consorzi che non servono. L’ho detto anche al ministro Renato Brunetta, in un dibattito a Deruta: ci sono sindaci che sopportano responsabilità enormi per 400 euro al mese. Ha concordato con me».
Le Province non esistono in nessun altro Paese simile al nostro. In Francia si chiamano Dipartimenti, ma non ci sono le Regioni. In Germania si passa dai Comuni ai Länder e poi c’è lo Stato. In Gran Bretagna esistono le Contee, ma non hanno funzioni politiche.
«In Italia le Province sono nate nel 1860. Ci sarà un motivo se fu avvertita questa esigenza. Il superfluo è venuto dopo».
Nel 1973 le Province e le Regioni contavano poco più di 91.000 dipendenti. Due anni fa, le Province da sole superavano i 56.000 e le Regioni gli 81.000. Un incremento di assunzioni del 50% abbondante.
«Non me ne parli: un terzo dei nostri 1.200 dipendenti è stato assunto nell’ultimo decennio. Ma quella di Perugia è anche la settima provincia d’Italia per estensione territoriale e la ventisettesima per popolazione. E lo Stato, allora? I ministeri hanno raddoppiato il personale».
Mal comune mezzo gaudio, è questo che mi sta dicendo?
«Sto dicendo che le Province tirano la cinghia, Roma no. Non vorrei che imitassimo Quintino Sella, il quale nel 1867 chiuse il bilancio statale in pareggio e l’anno successivo addirittura con un attivo, ma facendo fallire i Comuni. Credo che Berlusconi questo rischio l’abbia ben presente».
Stiamo parlando di 4.206 poltrone: 104 presidenti, 104 vicepresidenti, 894 assessori, 104 presidenti di assemblee consiliari, 3.000 consiglieri.
«Dimezzando il numero e lo stipendio dei parlamentari, si risparmierebbe molto di più. Ma qui si preferisce troncare l’anello debole della catena. Mi ribello».
Si rende conto che il suo omologo bolzanino Luis Durnwalder ha sotto di sé 22.000 dipendenti, uno ogni 23 abitanti?
«Le Province autonome e le Regioni a statuto speciale sono anacronismi intollerabili. La gestione dell’Umbria, al confronto, è assai più virtuosa. Abbiamo gestito due terremoti senza piangere sulla spalla di nessuno, non lo dimentichi».
I terremotati vivono ancora nei container.
«Una falsità di Striscia la notizia. Ci sono soltanto due anziani a Valtopina che si ostinano ad abitare nel prefabbricato perché non vogliono tornare nella loro casa restaurata».
La politica può essere una professione?
«No. L’eletto deve mantenere il proprio lavoro. L’unico che ti dà la libertà, quando non sei d’accordo, di mandare tutti a quel paese».
(503. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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