Il presidente pluri-insultato che non querelava nessuno

Anomalo anche in questo, già pluridimissionario nel Paese in cui nessuno si dimette mai, Cossiga era pure un plurinsultato ma mai querelatore. Oggetto, lui sì, di molteplici querele in seguito alle tipiche e spericolate picconate «ad personam», l’ex presidente si è distinto, nella massa di politici pronti a celebrare le virtù della libera stampa ma poi, con altrettanta prontezza, lesti ad inviare atti di citazione ai giornali non appena sfiorati in modo sgradito, per non aver mai utilizzato quell’arma di minaccia (e di inconfessata censura) contro i giornalisti.
Categoria a cui vantava di appartenere anch’egli, iscritto all’albo dei pubblicisti del Lazio nel 2003, dopo una serie di collaborazioni sotto il doppio pseudonimo di Mauro Franchi (opinionista di centrosinistra) e Franco Mauri (simpatizzante di centrodestra). Collega giornalista Cossiga, come peraltro Fini, come peraltro D’Alema. Con qualche differenza di stile, però, che gli faceva rispettare sempre e in ogni caso, diversamente dagli altri, l’odiosa - quanto tocca la propria persona - licenza di critica e di inchiesta che la stampa deve avere per non essere un ridicolo orpello.
Proprio lui, tra l’altro, con cui i giornali non sono mai stati teneri, dipingendolo di volta in volta come un mezzo matto, un vecchio malato di alzheimer, un golpista, uno spione, un uomo opaco, un tipo pericoloso. Fosse stato della pasta degli altri, uno alla Di Pietro, che pare abbia avviato più di 350 denunce nella sua pur breve carriera politica, Cossiga avrebbe potuto querelare un giorno sì e l’altro pure, mettendosi da parte anche una bel gruzzolo. Non lo fece. Un altro modo di intendere la libertà di stampa, magari con la clausola di poter contrattaccare, ribattere col fioretto, con l’arma dello sberleffo, una penale che qualsiasi cronista baratterebbe alla cieca con l’odiosa letterina degli azzeccagarbugli a cui il politico di turno «dà mandato in seguito all’articolo comparso etc...», di solito un meschino tentativo di bloccare le inchieste sotto il ricatto dell’azione legale con annesso risarcimento danni (milionario).
Nel ’91, quand’era ancora presidente, Michele Santoro in un Samarcanda su RaiTre mandò in onda, senza preavviso, una mezz’ora di SuperBlob tutto su Cossiga, montato, smontato, intervallato da mostri e nani di David Linch, quadruplicato come i mori della bandiera sarda, sovrapposto a se stesso per diventare un gorgo di parole incomprensibili: insomma la rappresentazione, sulla tv di Stato, di una attrazione da circo. Imbarazzo generale a Viale Mazzini, una nota congiunta dei direttori di rete per dissociarsi, il presidente della Rai che minaccia il black out per quel programma fazioso. E Cossiga? Niente, «non fa niente», disse, «mi bastano le scuse». Una levità, pur nell’ironia spesso contundente, completamente sconosciuta alla media dei mestieranti politici. Che infatti appena hanno potuto lo hanno querelato. Una volta definì «un piccolo uomo» certo senatore della Sinistra indipendente, che ovviamente querelò. Così fece pure Rosi Bindi, a cui Cossiga in una lettera pregò di «restituire dai fondi del Ppi i soldi rubati dalla Dc con Tangentopoli, invece di fare la vestale dell’integrità morale e politica...». Querelato. Altrettanto fece l’ex senatore Pds Sergio Flamigni, offeso a morte dal «poveretto» pronunciato a suo carico dall’ex presidente.

Anche Pippo Baudo, tra i non politici, cadde nel tranello, e lo querelò, («picciotto», lo chiamò Cossiga), e così pure Gino Strada, paragonato dal picconatore ad un amico dei Taliban. Eccessivo nello scherno, ma misuratissimo quando si sarebbe trattato di intimidire l’espressione del pensiero altrui. Il contrario esatto, a pensarci bene, di certi tromboni della libertà di stampa.

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