Ma è il prezzo da pagare per il progresso scientifico

La sensibilità crescente dinanzi alla sofferenza degli animali merita rispetto: e non c’è dubbio che nella relazione tra un uomo e un animale possono emergere attenzioni commuoventi, che devono interrogarci. Chi - da adulto o da bambino - ha fatto esperienza dell’intesa, anche reciprocamente affettuosa, che si può creare tra una persona e il suo animale può capire ciò che sto dicendo. Gli animali, e nemmeno le piante, sono abbassabile al livello di semplice cose e questa loro alterità rispetto al mondo inanimato - questa loro «differenza» radicale - è qualcosa che bisogna avere ben presente. Perché, ad esempio, esistono modi diversi di allevare animali da macello e anche di sopprimerli.
Lo scrupolo di quanti reagiscono di fronte a una violenza inutile a danno degli animali è uno scrupolo che è legittimo.
Tutto questo è però sufficiente a contestare la possibilità stessa che, date certe condizioni, si possano utilizzare talune cavie per sperimentare l’efficacia di nuovi farmaci? Ha senso ed è giustificato un atteggiamento radicalmente negativo di fronte a gruppi di ricerca che, prima di arrischiare una determinata cura su uomini e donne, provino a somministrare quel prodotto a qualche altra specie animale? È giusto che le uniche cavie legittime, alla fine, siano gli esseri umani?

In altre parole, è ragionevole accettare l’egualitarismo radicale di chi pone sullo stesso livello uomini e animali? È difendibile quella filosofia che, a partire da Richard Ryder, è detta «anti-specista» e vede nel predominio dell’uomo sul creato (o sul cosmo) una forma illegittima di dominio? E infine: è possibile tale cancellazione di differenze tanto evidenti? Ovviamente, anche quanti parteggiano per i cosiddetti «diritti» degli animali non possono essere del tutto coerenti con quanto affermano. È comprensibile che quanti tra gli animalisti più radicali amano davvero il loro cane non si pongano problemi se, allo scopo di salvarlo, devono ricorrere ad antibiotici e in tal modo sopprimere altre specie animali: evidentemente considerate «inferiori». In questo come in altri casi, l’egualitarismo è zoppo e incoerente. E l’esito di tale prospettiva, in fin dei conti, è solo quello di operare una qualche promozione ontologica di alcune specie, che si vorrebbero considerare titolari di diritti e che si vorrebbe elevare al livello degli umani.
La tragedia vera è che la vivisezione è un gravissimo errore metodologico che condanna l’uomo a errare, come un cieco, alla ricerca di un segnale che gli indichi la strada perduta, ad approfondire ricerche e studi, a scoprire terre incognite. È chiaro che sullo sfondo di tutto ciò c’è un antico (e irrisolto) conflitto tra diverse correnti profonde della nostra cultura: quelle che provengono dalla radice ebraico-cristiana, che è essenzialmente umanista, e quelle che discendono da una cultura pagana, più pronta a negare il primato ontologico dell’umano sul resto della realtà.

In un suo film documentario sulle gesta efferate di Jean-Bédel Bokassa (che negli anni Sessanta e Settanta tiranneggiò la Repubblica Centrafricana), a chiusura di quel terribile viaggio entro gli orrori della follia umana il regista tedesco Wim Wenders indugia con la telecamera sull’immagine (altamente metaforica) di una scimmia che fuma una sigaretta. Quella scena non è traducibile: è inquietante in sé e ciò basta.

Ma certamente quella conclusione segnala come tra l’uomo e le altre specie il confine resta un’esperienza fondamentale. La distinzione rimane ed è importante, va sempre ricordata ed è gravida di conseguenze. Anche sui nostri ordinamenti giuridici.

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