Da venerdì prossimo, parte l’iniziativa «Come eravamo. Vent’anni di storia, dal 1974 al 1994, raccontati dalle prime pagine de Il Giornale
diretto da Indro Montanelli». In allegato gratuito col quotidiano vi sarà la riproduzione di quattro prime pagine storiche (si veda il piano dell’opera nella grafica). Qui Stenio Solinas racconta come eravamo in quei decenni cruciali. E come siamo diventati.
Come eravamo. Che cosa siamo diventati. In un Paese che tende a dimenticare con troppa facilità, un giornale può essere memoria e quella de Il Giornale è una memoria lunga. Nacque il 25 giugno del 1974 (Il Giornale nuovo si chiamava allora) e sulle sue motivazioni non ci soffermeremo. Fanno ormai parte della storia del giornalismo italiano e poi i nostri lettori le conoscono benissimo. Nelle prime pagine montanelliane che di volta in volta riepilogheranno i nostri primi vent’anni di esistenza, chi legge ritroverà fatti, personaggi e momenti salienti. Qui il nostro compito è raccontare quei decenni come fossero una cornice: compito non facile per i Settanta e per gli Ottanta, perché in essi un’epoca giunse al suo culmine per poi esplodere, i detriti si sparsero per tutti i successivi anni Novanta e ancora adesso non ce ne siamo liberati.
Numericamente i Settanta possono essere così riassunti: 7866 attentati contro caserme di carabinieri, uffici pubblici, commissariati; 4290 atti di violenza durante manifestazioni e cortei; 362 morti e 172 feriti in agguati; 11 stragi per un totale di 151 morti e oltre 5000 feriti; 15 rapimenti politici; 597 sigle di formazioni che hanno rivendicato attentati o agguati (484 di sinistra, 113 di destra); 37 terroristi uccisi in conflitti a fuoco con le forze dell’ordine.
Dietro questi numeri c’era un clima, un mondo, un modo di sentire. Il clima, il mondo, il modo di sentire che faceva scrivere a Leonardo Sciascia: «C’è una classe politica che non muterà mai se non suicidandosi. Non voglio per nulla distoglierla da questo proposito e contribuire a riconfortarla».
Un clima, un mondo, un modo di sentire che farà dire a Eugenio Montale, a proposito del fuggi fuggi dei giudici popolari al processo di Torino contro il nucleo storico delle Brigate rosse: «Sono un uomo come gli altri e avrei avuto paura come gli altri. Non si può chiedere a nessuno di essere un eroe». Un clima, un mondo, un modo di sentire che ai cancelli della Fiat farà capire a Giampaolo Pansa come, nel brodo di coltura estremistico, ci fossero sapori operai, odi aziendali, sfiducia istituzionale, disprezzo sociale e politico... Fu un decennio disperato, dove il pendolo della politica e della ideologia oscillò da Destra a Sinistra permettendo le più perverse illusioni. Il golpe in Cile è del 1973, i colonnelli greci prenderanno il potere appena un anno dopo, i vietcong entrano a Saigon, il generalissimo Franco esce di scena.
Lo studente «fascista» Sergio Ramelli viene sprangato a morte, ma c’è anche l’altra faccia di quelli che Pasolini definirà «i rappresentanti inevitabili del Male»: i massacratori del Circeo, i bombaroli, i campi paramilitari, gli slogan «Basta coi bordelli/vogliamo i colonnelli»...
E poi, naturalmente, sono gli anni delle tangenti petrolifere, lo scandalo Lockheed, il crac Sindona, la bancarotta di Caltagirone. Il volto istituzionale del Paese fa il resto. Bizantinismi incomprensibili, governi a ripetizione, partitocrazia imperante, la fine annunciata della Prima repubblica con la cerimonia funebre di Stato per Aldo Moro, una Repubblica sprofondata nella notte mentre quel cadavere «desaparecido» per l’ufficialità viene seppellito in forma privata a Turrita Tiberina.
Era un’Italia che aveva un suo languore orientale, una capacità di sfasciarsi senza però crollare di colpo... Così, in una decadenza senza tregua, ma quasi inavvertibile, l’unica cosa stabile era il provvisorio.
L’esaurirsi per consunzione dei «terribili» Settanta fu il terreno di coltura dei «gloriosi e fangosi» anni Ottanta in cui, a detta dei loro estimatori, trionfò sì la volgarità, ma si innalzò il prodotto lordo, esplose sì il consumismo, ma venne battuta l’inflazione, vennero meno sì gli ideali, ma diventammo la quinta potenza industriale del mondo. In breve, fu allora che l’Italia divenne moderna nei costumi e cercò di essere decisionista nella politica e, in fondo, oggi Silvio Berlusconi è chiamato a portare a termine ciò che Bettino Craxi non riuscì a finire.
Messo così, questo repêchage nostalgico-futurista ha una sua logica, non fosse che dopo gli Ottanta sono arrivati i Novanta, il che è nell’ordine numerico delle cose, ma dal punto di vista storico vuol dire la fine traumatica di un ciclo e l’aprirsi di un altro che ancora perdura e di cui nemmeno il Divino Otelma potrebbe prevedere l’evolversi. E quella fine traumatica qualcosa dovrebbe pure insegnare in termini di conduzione della vita pubblica, selezione delle classi dirigenti, non ingerenza dei partiti politici e dei poteri economici, linearità dei comportamenti intellettuali, dignità statuale.
L’impressione, insomma, è che la vitalità degli Ottanta fosse sana quanto il brulicare dei vermi su un pezzo di carne andata a male.
L’idea del decennio riflussato e de-ideologizzato merita comunque una messa a punto: c’è la strage di Bologna, Ustica, l’assassinio di Walter Tobagi, dell’ingegner Taliercio, del generale Dalla Chiesa, il sequestro Dozier e l’attentato al Papa... E però vuoi mettere con il ricordo dei politici canterini alla trasmissione «Cipria»: il socialdemocratico Di Giesi che canta L’uccellin che vien dal mare, il repubblicano Biasini che gorgheggia Signorinella, il democristiano Mannino impegnato con la Turandot, il liberale Biondi con Buon anniversario... Poi ci si domanda da dove venga il discredito della nostra classe politica...
È un decennio che si apre con la morte di Pietro Nenni e si chiude con l’esordio televisivo di Gigi Marzullo, e questo vorrà pur dire qualcosa. A livello internazionale però c’è il crollo del muro di Berlino, c’è Tienanmen.
Solo allora il Pci penserà di cambiare nome e anche questo vorrà pur dire qualcosa.
In fondo gli Ottanta furono un combinato disposto di rampantismo, cinismo, arrivismo, qualunquismo (di sinistra, pensa un po’), cecità politica. Non si credeva più nei partiti, ma si continuava a usarli come moneta di scambio, non si sognavano più rivoluzioni, ma l’averla sognata garantiva la cooptazione nei centri di potere. Non sorprende che poi sia saltato tutto, caso mai è sorprendente che un tale meccanismo sia riuscito a durare così a lungo.
Flussi, riflussi. È inevitabile che il Duemila che stiamo vivendo riporti in superficie qualcosa di allora.
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