PRIMETEATRO

Enrico Groppali

da Roma

A ben ventiquattro anni di distanza dal suo primo omaggio ad Ettore Petrolini, Gigi Proietti nel settantesimo anniversario della morte del grande attore, si ripresenta al suo affezionato pubblico del Brancaccio con uno spettacolo nuovo di zecca stavolta intitolato, nel ricordo tra ironico e affettuoso del cinema muto, Ma l'amor mio non muore. Dove la frase assume un taglio a doppio senso perché Proietti, attraverso il titolo della celebre pellicola che segnò il trionfo di Lyda Borelli, allude non al rimpianto dell'estetica cara a Guido da Verona ma alla propria incondizionata passione per l'arte del collega scomparso. Ma non si creda, per carità, a una serata nostalgica. Non è del grande Gigi abbandonarsi, sullo sparato bianco del clown, a una cascata di pois d'argento che simulino irrefrenabili gocce di pianto. Davanti a una platea da grandi occasioni mondane, completa di Veltroni, star e ammiratori il grande attore ammicca in primis al suo abbigliamento da fine dicitore descrivendo, col lessico di Petrolini, il proprio inappuntabile smoking denominato, come si usava durante il ventennio, il «fumando» in accenti agrodolci. Scoppia il primo applauso, e Proietti prima di dar la stura con l'abituale verve al fuoco incrociato dei travestimenti, degli scambi di persona e dell'impagabile repertorio di voci fesse e sottotoni suadenti di cui è maestro, si concede il lusso di qualche battuta sui politici. Si comincia dal tormentone per l'elezione del presidente della Repubblica con una bonaria allusione a se stesso («se mi chiamassero, dovrò andarmene e lasciarvi soli!», ammicca sornione), poi non risparmia frecciate a chi minacciò, in caso d'attuazione dei tagli allo Spettacolo, le dimissioni prima di stigmatizzare con sarcasmo il comportamento di certi Stabili rei di proporre spettacoli lunghissimi e costosissimi destinati a chissà chi. Ma quando si comincia a temere che la polemica non si plachi, ecco Proietti, con un guizzo inimitabile, introdurre allo show vero e proprio evocando con la pura forza della parola, il mondo fantastico del cinema di un tempo quando, sulle note di una spinetta, lo schermo si accendeva di luci bianche e nere e lo sparato cupo del primattore si avvinghiava a una bellissima che, in fremente attesa dell'amato, si aggrappava alle tende per nascondere gli affanni del cuore. Ed è allora la volta del quadro più emozionante dello spettacolo con un Proietti irriconoscibile, avvolto nei cenci di un clochard che ricorda l'Archimede di Jean Gabin, declamare con un cavernoso fil di voce che a tratti si spegne in un accesso di raucedine e a volte s'innalza al cielo come una spada lucente le celebri didascalie del film: «Muore il cavallo, la radice, il fiore ma l'amor mio, l'amor mio non muore». E giù una salve di applausi. Ma il Proietti in odor di Petrolini non dimentica la sua vena di cantor popolare, e così eccolo subito dopo tornare a se stesso in maniche di camicia come un Rugantino redivivo a intonar da par suo la romanza del Pastorello dell'Agro Romano a suo tempo ripresa, in altra tonalità, da Giacomo Puccini all'inizio del terzo atto di Tosca quando Cavaradossi, dal carcere di Castel Sant'Angelo, sente fluire in lontananza i canti e i suoni che annunciano il risveglio della Città Eterna.

E quando l'emozione sembra contagiar un po' tutti, ecco ritornare alla grande Petrolini, ecco i suoi famosi exploit, ecco Benedetto tra le donne con Proietti in bianco, dinoccolato come un gagà, che gioca da funambolo consumato con la dizione a raffica, ecco il calzolaio filosofo che storpia le massime dei grandi, ecco signore e signori il trionfo del Grande Attore scandito dall'urlo di gioia di una platea entusiasta che reclama a gran voce Gigi, sempre Gigi, come allo stadio.

MA L'AMOR MIO NON MUORE - di e con Gigi Proietti Roma, Teatro Brancaccio, fino al 28 maggio

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