Cultura e Spettacoli

Il primo libro non si scorda mai Anzi si rimpiange

Ecco un esercizio di sadismo letterario. Prendere un po’ di scrittori con un libro appena uscito, magari in lizza per qualche premio, e chiamarli per parlare dell’opera di esordio. Anche senza avere un videotelefono, si intuiscono le smorfie di dolore: per molti autori dev’essere un supplizio non poter magnificare il titolo fresco di stampa. Il primo libro che non si scorda mai è il tema del risvolto più curioso dell’estate, scritto da Giulio Mozzi per la riedizione del suo Questo è il giardino (Sironi). È una dichiarazione che nessun scrittore a memoria di lettore ha mai osato fare. Più o meno c’è scritto così: Questo è il giardino è l’unica cosa buona che ho fatto, un piccolo miracolo che non si è mai più ripetuto, per nessuno dei tanti libri che ho scritto in seguito. «Mozzi è depresso», liquida la questione Isabella Santacroce. «Quando rileggo Fluo provo tenerezza, molta tenerezza, ma se lo considerassi la mia cosa migliore avrei già smesso di scrivere e mi sarei messa a cacciare farfalle». «Tenerezza» è la stessa parola usata da Giuseppe Conte per esprimere il sentimento che lo invade quando ripiglia in mano L’ultimo aprile bianco, con cui nel 1979 si avventurò nel mare procelloso della poesia. «Non è il libro migliore né il peggiore, è semplicemente quello più legato alla giovinezza». Era abbastanza prevedibile che nessun autore si lanciasse sulla strada coraggiosa (o vezzosa?) di Mozzi. Parlare di esordio insuperato significherebbe darsi la zappa sui piedi. Ma anche il contrario, l’esordio ripudiato, non sembra esistere in natura. Ogni scrittore vuole pensare ogni suo libro come migliore, e pazienza se quale sia il peggiore non te lo dice mai. Per stabilire una gerarchia bisognerebbe usare la categoria del «più migliore» che però logica e grammatica si rifiutano di autorizzare. Per fortuna la lingua italiana abbonda di superlativi che non sono strafalcioni. Eccone qualcuno. Il più saggio: Le piccole vacanze secondo Alberto Arbasino, che con questa raccolta di racconti esordì nel 1957. La saggezza non fu dell’autore ma dell’editore Einaudi o meglio di Italo Calvino, che convinse Arbasino su due punti cruciali: 1) pubblicare un libro breve, nella giusta convinzione che gli esordienti prolissi non li legge nessuno; 2) non sparare subito tutte le cartucce, tenendo da parte qualche buon racconto per il libro successivo. Ce ne sarebbe bisogno anche oggi, di editori così. Il più puro: La polvere sull’erba secondo Alberto Bevilacqua. Fu scritto subito dopo la guerra e incredibilmente rimasto inedito fino al 2000 quando Einaudi, che l’aveva tenuto nel cassetto per mezzo secolo, si è risolta a pubblicarlo. «È un libro limpido, che mi è uscito d’istinto dopo essermi aggirato in bicicletta, nei giorni successivi al 25 aprile, in quello che fu poi definito il triangolo della morte. Fui testimone di fucilazioni terrificanti». Il più fatato: Jack Frusciante è uscito dal gruppo secondo Enrico Brizzi. «Il primo libro non si scorda mai? Certo, ma è difficile che il primo amore sia per la vita. Specie se hai solo 17 anni». Intorno a quell’enorme successo, Brizzi percepisce un alone magico: «Continuo a stupirmi che abbia trovato un pubblico così ampio e generoso». Il più forte: I due fratelli secondo Luca Doninelli. Lo scrittore lombardo considera l’opera prima il suo risultato più robusto, «perché è l’esito di trent’anni di scrittura, mentre il libro seguente l’ho scritto in due anni scarsi». I due fratelli è una raccolta di racconti come Le piccole vacanze di Arbasino: la differenza è che Doninelli non ha avuto un Calvino che lo consigliasse di ripartire le forze tra libro numero uno e libro numero due. Il più proustiano: Un giorno di impazienza secondo Raffaele La Capria. «All’epoca mi ero innamorato in maniera esagerata della Recherche, avevo rubato quattro o cinque passi di Albertine disparue perché pensavo che a un artista fosse lecito rubare a un altro artista». Poi però ci ha ripensato e di Proust, nelle ultime edizioni del libro, non è rimasta nemmeno una riga. Il più autentico: Lazzaro, vieni fuori secondo Andrea G. Pinketts. Che non ne fa una questione personale: «Il primo libro è il più vero per ogni scrittore». Per lui forse un tantinello di più, visto che gronda sette anni di lacrime dovuti a sette anni di rifiuti editoriali (ma tutto è bene quel che finisce bene, l’ottavo anno venne letto da Manuel Vázquez Montalbán che lo fece resuscitare, cioè pubblicare da Feltrinelli). Fuori dalla gabbia del superlativo, anche Edoardo Nesi ricava una lezione generale dalla propria esperienza di esordiente con Fughe da fermo: «Il primo romanzo lo scrivi quando non sei ancora uno scrittore. Dopo che hai visto la prima copia in libreria e la prima recensione sui giornali, qualcosa cambia per sempre dentro di te. Lo spirito solitario degli inizi non lo ricatturi più». Strano davvero: il primo libro non se lo scorda nessuno ma tutti, per quanti sforzi facciano, non riescono a ricordarsi come si scrive da esordienti. Perduta una volta, l’innocenza è perduta per sempre.

È così che si spiega la mania dei nuovi autori: il lettore è come un sultano libidinoso, non cerca buoni scrittori, cerca scrittori vergini.

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