La privacy c’è solo quando serve

C’è qualcosa che stride, e disturba, nel grande strepito che, con indignazione annessa, s’è levato intorno al servizio trasmesso dal Tg 5 di Clemente Mimun che mostrava una fase delle perizie sui bambini presunte vittime di abusi nella scuola di Rignano Flaminio. Volano parole grosse, si invocano immortali principi, si chiede che si attivino giudici e authority, ma tanto virtuoso furore non riesce a cancellare una fastidiosa sensazione, un prurito dell’epidermide civile dovuti a un fatto storicamente certo: sono stati proprio quei genitori che oggi invocano il rispetto della privacy a violare per primi la riservatezza propria e quella dei loro bambini, innocenti comparse di una battaglia della quale non s’intravedono né la necessità né i fini.
Sì, sono stati proprio certi genitori, fedeli adepti del culto televisivo imperante, a impugnare per primi le telecamere per costringere i loro bambini a parlare, mostrando le faccine e rivelando l’inadeguatezza del loro linguaggio, di realtà mostruose, non si sa da chi evocate. Sono stati quegli adulti a rubare il mestiere a psicologi e giudici, a improvvisarsi in ruoli impropri, con l’unico effetto di trasformare la loro ansia di verità e di giustizia in un pasticcio di distorsioni e manipolazioni, magari non volute ma inevitabili.
Non possiamo fermarci qui. I dettagli dei racconti che quei genitori hanno raccolto e catalogato senza alcun rigore logico e distacco sperimentale sono stati squadernati sui giornali, che hanno potuto titolare sulla «scuola degli orrori» con dovizia di particolari, orride e scabrose specificazioni tecnico-pedofile e sataniche, anche. Chissà quanti hanno visto quei filmati girati dagli inquisitori della domenica. Certamente non gli indagati, sommersi da un mare di fango prima ancora che potessero provare a difendersi. E chissà chi li ha diffusi quei filmati.
E c’è dell’altro. Alcuni di quei genitori sono andati in televisione, hanno mostrato i loro visi, hanno scandito i loro nomi e con questo hanno rivelato, almeno ai concittadini, ma tanto basta, l’identità dei piccoli che avrebbero subito i presunti abusi. Come fanno adesso i loro legali a invocare il rispetto della «carta di Treviso», che impone ai mezzi d’informazione di non svelare l’identità dei minori parti offese da un reato?
Cerchiamo di essere chiari. L’inchiesta su Rignano Flaminio, che ha turbato il Paese al di là della provata o della dimostrabile gravità degli addebiti contestati agli inquisiti, è stato un esempio estremo di «istruttoria mediatica», nella quale le accuse, sostenute dal clamore di giornali e telegiornali, hanno preceduto la prudente ricerca delle prove e dei riscontri e tutto questo è stato possibile perché le presunte parti lese sono subito andate all’attacco senza alcun rispetto della privacy, nemmeno della loro. Forse non è un caso che il Tribunale del riesame abbia smontato l’impianto accusatorio e che dei presunti orrori si sia attutita l’eco ingigantita dai mezzi d’informazione.
Sembra, però, che adesso si continui a voler cercare a tutti i costi dei colpevoli, non importa di che cosa. Un’istruttoria mediatica quasi sempre ha code mediatiche non previste da chi ha avviato il gioco.


Proprio perché si parla di innocenti, comunque turbati dall’interesse degli adulti e dai loro clamori, dobbiamo rimpiangere il tempo in cui il riserbo vero avvolgeva certe inchieste. Ma i primi a doversi battere il petto sono quei genitori che, magari credendo di far bene, non hanno adeguatamente protetto i loro figli.

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