Politica

Pro Obama/ Il discorso? Una nuova era

Caro direttore, ho letto il tuo fondo di ieri sul discorso di Obama e non sono mica d’accordo. Nel pezzo di vita che ho vissuto (speriamo continui per un po’), ogni volta che mi sono trovato davanti a qualcosa d’importante, a una svolta, a un rito di passaggio come insegnava Van Gennep, mi è sempre venuta in mente la stessa domanda che poni tu: è tutto qui? Credo che si tratti del solco incolmabile tra aspettativa e realtà. Tra sogno e agguati della delusione: chi fosse interessato all’argomento, può consultare un’intera letteratura sulle stagnole stellate dei Baci Perugina. Ti faccio un esempio del cavolo: dopo qualche decina di esami all’università ti trovi davanti alla commissione che deve discutere con te la tesi. Perbacco, un giorno mica come un altro. Loro sono annoiati, hanno altri candidati che aspettano fuori dalla porta e ti stanno a sentire proprio perché non possono farne a meno. Ti recitano un sermoncino scontato (deve essere lo stesso che i baroni si tramandano di padre in figlio), magari prendi anche il massimo dei voti, però ti chiedi: è davvero tutto qui? Eppure quel momento, anche se lì per lì non lo sembra, è fondamentale perché chiude una porta e ne apre un’altra. Insomma, da quel giorno comincia una nuova era. Non è il caso di scomodare paroloni come «svolta storica» o «evento epocale» per una semplice laurea, me ne rendo conto. Però nel piccolo è così.

Ti confesso che anch’io non riesco a emozionarmi ascoltando il discorso di Obama, anch’io l’ho già dimenticato e anche a me le fanfare provocano allergia. Sono genovese e credo che nella mia città l'ultima volta le abbiano suonate (ma può darsi nemmeno) ai tempi di Andrea Doria. Penso però che forse martedì a Washington è davvero scoccata «l’ora della responsabilità» e noi non lo abbiamo capito. Quando davvero succede qualcosa viene sempre a galla quella domanda: è tutto qui? Magari non era quello il momento giusto, tra una canzone di Aretha Franklin afona per il freddo e il giuramento sulla Bibbia di Lincoln, per fare l'originale e per gli slogan forti, quelli che cambiano il corso della storia o almeno ci provano. Secondo me non ha voluto scoprire le carte, perché non era il caso di farlo davanti a due milioni di persone e alle tv di tutto il mondo.

Gli americani (e anche gli afroamericani) sono fatti così, nelle cerimonie ufficiali parlano sempre di «unità d’intenti», «grandezza della nazione», «tradizione di libertà e democrazia», quasi fossero formule che vanno comunque ripetute come fanno i sacerdoti durante la messa o i giudici che leggono una sentenza. Sono parole che accontentano se non tutti, il più ampio spettro possibile, che rappresentano le fondamenta stesse degli Usa e che gli americani vogliono sentire. Ricordo che le declamavano come un rituale anche dopo l’11 settembre, quando le macerie di Ground Zero fumavano ancora e ci sarebbe stato molto altro da dire. Poi però non si sono limitati alla retorica e sono passati ai fatti, anzi alla guerra. Se a torto o ragione lo deciderà la Storia. A proposito, sei proprio sicuro che Bush abbia difeso nel modo migliore, «fermo e deciso», l'America e il mondo? Io un mezzo dubbio ce l’ho. Mi sembra che per chiarire di che pasta sia fatto Obama non conti tanto il discorso ma quello che è successo subito dopo.

Appena sceso dal palco, quando iniziava a scemare l’eco dei festeggiamenti, è entrato alla Casa Bianca e ha bloccato tutte le riforme avviate dal suo predecessore. Archiviate le belle (magari anche inutili e banali) parole dell'insediamento, Barack ha preso il toro per le corna. Un modo di agire non certo da oratore. Le «leggi di mezzanotte», così si chiamano gli ultimi decreti di un presidente, sono state spazzate già via. Consentivano trivellazioni petrolifere nelle vicinanze dei parchi nazionali e permettevano di entrare nelle riserve naturali con armi cariche. Poca roba per carità.

Però, senza voler osannare i film di Michael Moore, mi sa che tutto qui non è.

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