Roma - Venticinque anni dopo, l’unica cosa certa al processo sui presunti mandanti del presunto assassinio di Roberto Calvi, è che il «banchiere di Dio» è morto. Forse ammazzato, anche se non si sa da chi e perché. Forse suicida, con un cappio intorno al collo sotto al ponte dei Frati Neri lungo il Tamigi, come velatamente sospettano i difensori dei cinque imputati assolti ieri dall’accusa d’aver pianificato l’omicidio del presidente del Banco Ambrosiano per conto di Cosa nostra. Si sgretola così, per «insufficienza di prove», il teorema del pm Luca Tescaroli che nel chiedere quattro ergastoli aveva puntato tutto sul cassiere della mafia Pippo Calò, sull’imprenditore Flavio Carboni, su Ernesto Diotallevi considerato organico alla Magliana e su Silvano Vittor (che aveva accompagnato Calvi a Londra). Assolta con formula piena anche l’ex compagna di Carboni, Manuela Kleinzig.
Esultano gli avvocati che sono invecchiati col processo: da Renato Borzone a Oreste Flamini Minuto, da Massimo Amoroso a Corrado Oliviero, da Carlo Taormina al più giovane Paolo Dell’Anno. Tutti concordi nel sottolineare la spettacolare débâcle di un impianto accusatorio traballante che rilancia l’antico adagio, in tema, di Leonardo Sciascia: «Perché si preferisce il bel giallo invece di cercare la verità? Più che sotto il segno di un’onnipotente associazione criminale, mi è subito apparso sotto il segno dell’imbecillità».
Per la procura gli imputati, in concorso fra loro, «avvalendosi delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa nostra e Camorra, cagionavano la morte di Roberto Calvi al fine di: punirlo per essersi impadronito di notevoli quantitativi di denaro appartenenti alle predette organizzazioni; conseguire l’impunità, ottenere e conservare il profitto dei crimini commessi all’impiego e alla sostituzione di denaro di provenienza delittuosa; impedire a Calvi di esercitare il potere ricattatorio nei confronti dei referenti politico-istituzionali della massoneria, della Loggia P2 e dello Ior, con i quali avevano gestito investimenti e finanziamenti di cospicue somme di denaro». Di tutto, e molto di più se si pensa che sulla morte di Calvi, sempre a Roma, c’è ancora un altro fascicolo aperto con dieci indagati (tra questi anche l’immancabile Licio Gelli) nato dallo stralcio dell’indagine-madre sui mandanti eccellenti.
Cala così il sipario su una rappresentazione giudiziaria non immune da pecche e conclusioni frettolose, che da Milano è passata a Roma a seguito di discussi conflitti di competenze relativamente alla ricettazione della famosa «borsa» di Calvi. All’inizio si parlò d’omicidio, poi di suicidio, quindi di suicidio camuffato d’omicidio. Ogni nuova perizia (su tutte l’ultima voluta dal giudice istruttore Otello Lupacchini che portava all’omicidio) smentiva puntualmente la precedente (la più famosa è quella Lodi-Fazi-Bozzato che optava invece per il suicidio). Tra i moventi alternativi, se si crede all’omicidio, nel corso degli anni ne son spuntati fuori a decine: dalla pista che fa capo ai servizi inglesi e ai traffici d’armi in Argentina a quella ventilata dai familiari di Calvi che porta dritta in Vaticano o in ambienti politici vicini all’Ambrosiano. Metteteci poi che dal 2002 una decina di pentiti iniziano, tutti insieme,improvvisamente a parlare di cose diverse e discordanti che dieci anni prima, ognuno di loro, aveva negato di sapere. Al Giornale il «faccendiere» Flavio Carboni la riassume così: «Dopo 25 anni c’è poco da dire, se non che un processo fondato sul nulla è finito nel nulla. Non credo nel delitto, omicidio e suicidio per me pari sono. Se Calvi si è suicidato, aveva mille motivi per farlo. Se lo hanno ammazzato, la mafia non c’entra perché non c’è un riscontro.
Sinceramente non so a cosa pensare, se non che questa persecuzione alimentata dalle bugie dei pentiti è finalmente finita. Ho subito 15-20 processi, sono stato rovinato finanziariamente, gli usurai mi hanno strappato le carni. Un inferno».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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