da Roma
Tra una camera ardente e una lettera alla vedova Calipari «per esprimerle vicinanza e affetto», un punto della situazione sulla manovra con Padoa-Schioppa e un incontro serale con Manzione e Bordon, per Romano Prodi quella di ieri è stata una giornata tutto sommato tranquilla.
D’altronde, il possibile luogo del delitto, ossia il Senato era chiuso per la pausa del week end, e già questo rende più sereno il clima, visto da Palazzo Chigi.
Dove ieri sera si lavorava ancora a limare il testo del discorso che il premier pronuncerà oggi, davanti alla mega-assemblea della Costituente democratica. Sarà l’intervento di apertura, e certo il Professore non rinuncerà a ricordare che quella che ora Walter Veltroni si ritrova a gestire è la «sua» creatura, il frutto di quell’Ulivo che «lui» ha piantato. E a rivendicare, come ha fatto nei giorni scorsi, che lui ne resta il presidente, e dunque avrà voce in capitolo anche sul partito. Ma «Prodi non ha nessuna intenzione di oscurare la giornata di Walter» dicono i suoi. Il quale già se la dovrà vedere con quel «sistema tedesco» che ieri Massimo D’Alema gli ha scagliato decisamente tra i piedi come quello con «il massimo consenso».
Necessariamente il centro del discorso prodiano sarà il governo, e il suo possibile «rilancio», e il richiamo alla necessaria lealtà del Pd per sostenerlo «fino in fondo». Chi ieri ha incontrato il premier lo descrive «deciso a vendere cara la pelle». Non ha alcuna intenzione di gettare la spugna e ripete ai suoi interlocutori: «Il tempo gioca a mio favore». Convinto che, se supererà indenne l’enorme scoglio della Finanziaria e dei collegati, e arriverà a gennaio, poi sarà assai difficile sbarazzarsi di lui. Una cosa è certa, ripete ai suoi interlocutori: «Nessuno si illuda che sia io a dimettermi, dopo una serie di agguati parlamentari: non lo farò». Perché questa «è l’unica arma che ho: costringere chi mi vuol fare fuori a venire allo scoperto, a metterci la faccia e la firma». Insomma, per cadere non bastano i franchi tiratori: solo un fatto grave, un palese voto di sfiducia lo costringerebbe alle dimissioni e alla crisi. Certo, sulle prossime settimane l’incertezza è totale. I segnali inquietanti continuano ad arrivare: c’è Lamberto Dini che ribadisce che sulla Finanziaria giocherà «a mani libere, senza vincoli di coalizione»; c’è il ministro Di Pietro che continua ad agitarsi e cui arrivano segnali affettuosi dal centrodestra. Prodi non si fida molto del ministro, sa che «se trovasse un pretesto spendibile elettoralmente» potrebbe anche trasformarsi nel killer del governo. A sinistra c’è Turigliatto che annuncia che non voterà la Finanziaria neppure con la fiducia e Fernando Rossi che ancora non scioglie la riserva ma ammette che «le pressioni sono molto negative», e chiede di non essere più considerato parte della maggioranza. E poi, forse, ci sono i misteriosi senatori «comprati» da Berlusconi.
Insomma, la strada della manovra è ancora tutta in salita, e ad ogni svolta può esserci il «trappolone» in cui far cadere il governo.
Dopo l’ultimatum dato giovedì sera in diretta tv alla sua maggioranza (un’idea partorita dal ministro Giulio Santagata durante un brain storming dello staff prodiano per capire come non uscire devastati sui giornali dell’indomani), Prodi ha iniziato a consultare i possibili «dissidenti» del Senato. Manzione e Bordon, i due senatori «ribelli» dell’Ulivo, sono saliti a Palazzo Chigi ieri sera, e gli hanno annunciato che manterranno il loro emendamento «dimezza-ministri». Il premier non si è opposto affatto.
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