Prodi, l’oste cocciuto di Palazzo Chigi

Francesco Damato

Non credo che agli alleati di Romano Prodi, soprattutto ai Ds e alla Margherita, che più si sono spesi per riportarlo a Palazzo Chigi rafforzandone l’anno scorso la candidatura con lo strumento delle primarie, siano contenti di essere finiti in un caseificio. Dove il presidente del Consiglio con l’imprudenza che ormai lo distingue si è vantato di averli appunto portati per farne delle mozzarelle.
Un giornalista di El Pais che lo ha intervistato alla vigilia del suo viaggio a Madrid si è sentito chiedere, tra una domanda e l’altra sulle difficoltà del governo: «Sa come si fa la mozzarella?». Immagino lo stupore del collega spagnolo, abituato probabilmente dai nostri vignettisti ad associare la figura del presidente del Consiglio ad un’altra produzione alimentare: quella della mortadella. Che tuttavia fa sempre rima con mozzarella. «Si gira e si rigira con pazienza - gli ha spiegato Prodi - fino a formare una matassa. Diciamo che io sto facendo la mozzarella».
Furente per le critiche piovutegli addosso per l’affare Telecom e per la legge finanziaria del 2007 anche dai grandi giornali che in primavera si spesero tanto per aiutarlo a vincere, sia pure per un soffio, la difficile partita elettorale contro Silvio Berlusconi, l’improvvisato mugnaio di Palazzo Chigi ha cercato di mescolare paura e sicurezza. «Se non riescono a farmi fuori adesso, alla fine il Paese capirà le mie ragioni», ha detto. «Alla fine vincerò io», ha però garantito.
Anche se i numeri al Senato sono quelli che sono, da cardiopalmo per la coalizione di governo, è difficile credere che Prodi pensi solo o soprattutto alle opposizioni quando è costretto ad ammettere il pericolo di essere «fatto fuori». In realtà i problemi che cominciano ad attanagliarlo provengono soprattutto dall’interno della sua maggioranza, tanto risicata elettoralmente quanto disomogenea politicamente. L’insofferenza dei suoi alleati può solo crescere, non diminuire, dopo che Prodi si è lasciato scappare di volerli ridurre tutti ad una mozzarella. E in più li ha beffardamente sfidati dicendo, sempre nell’intervista al giornale spagnolo, che «non possono mandarmi via perché non saprebbero che fare».
Si sta un po’ ripetendo lo scenario di dieci anni fa, quando Prodi approdò per la prima volta a Palazzo Chigi. Anche allora egli coltivò illusioni di onnipotenza facendo spallucce sia a Fausto Bertinotti, che cominciò nel 1997 a creargli problemi da sinistra, sia all’allora segretario del Partito popolare Franco Marini, che gliene creava da destra, sia a Massimo D’Alema, che da segretario dei Ds gliene creava frontalmente. E al quale fu attribuita una battuta al veleno contro Prodi che, per quanto smentita, è continuata e continua ogni tanto ad essere impietosamente evocata nelle cronache politiche: un «flaccido imbroglione». Flaccido peraltro come la mortadella, ma anche come la mozzarella.
Le cose si trascinarono stancamente e goffamente sino all’autunno del 1998, quando in un impeto di imprudenza, sicuro anche allora che nessuno sapesse che fare senza di lui, Prodi sfidò i suoi alleati reclamando a Montecitorio una votazione di fiducia. Perse per un voto. Si dimise. Rifiutò sdegnosamente un mezzo soccorso offertogli da quel benedett’uomo di Francesco Cossiga e reclamò le elezioni anticipate. Che però gli furono negate. E lui, per quanto ora sia impegnato a unificare i due maggiori partiti della coalizione, mise su per ripicca un movimento politico tutto suo.

Che aveva come simbolo un asino.

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