Prodi rischia di naufragare sulla rotta del riformismo

Francesco Damato

A dispetto della sicurezza che Romano Prodi continua ad ostentare e alle convocazioni che si vanta di avere «deciso» precettando per sabato prossimo segretari di partito, ministri, presidenti di gruppi parlamentari e non so quanti altri ancora per un affollatissimo vertice di maggioranza, il governo ha l’aria di essere entrato in camera di rianimazione. Bisogna riconoscergli il merito di avere mantenuto la promessa di «stupire» gli italiani. Se è per questo, anzi, è andato ben oltre. Ha stupito anche gli stranieri, visto il trattamento che gli sta riservando la stampa internazionale più autorevole, per non parlare naturalmente delle agenzie di rating che gli hanno impietosamente bocciato la legge finanziaria declassando i titoli del debito pubblico italiano.
Dopo soli cinque mesi di lavoro a Palazzo Chigi il presidente del Consiglio è stato chiamato dai due maggiori partiti della coalizione di governo a «cambiare passo», ad avviare «la fase 2», a non commettere «errori di comunicazione», a dimostrare «maggiore capacità di ascolto». Sono parole del segretario dei Ds Piero Fassino e del presidente della Margherita Francesco Rutelli, ma anche di un ordine del giorno approvato all’unanimità dalla direzione nazionale dell’ex Pci.
I due maggiori partiti della coalizione governativa potrebbero rapidamente accorgersi di essere intervenuti troppo tardi. Prodi ha ormai spostato tanto a sinistra l’asse del governo da non poter più tornare indietro. Una vera correzione di rotta verso posizioni moderate e riformiste lo metterebbe irreparabilmente in rotta di collisione con la sinistra antagonista. Che d’altronde già morde il freno per le concessioni fatte, per esempio, alla Confindustria nelle modifiche alla legge finanziaria e per il proposito annunciato di intervenire presto sulle pensioni. Fausto Bertinotti, d’altronde, non si lascia scappare occasione per far capire di non ritenersi per nulla imbalsamato nel suo ruolo istituzionale a Montecitorio.
È significativa la rapida puntigliosità con la quale il presidente della Camera è intervenuto a gamba tesa nel dibattito politico riproposto la settimana scorsa dal collega del Senato Franco Marini sulla necessità di un’ulteriore riforma elettorale. Bertinotti ne ha contestato l’urgenza, pur riconoscendo che la legge sperimentata nelle elezioni del 9 aprile ha prodotto condizioni difficili di governabilità, particolarmente avvertibili in quell’ospedale ortopedico che è ormai diventato Palazzo Madama. Dove il governo è appeso alle grucce dei senatori a vita e Marini è costretto spesso a forzare il regolamento per non farlo cadere.
Ma tanto più sono difficili queste condizioni di governabilità, tanto più è rischioso per chi ha le maggiori responsabilità di governo un ricorso anticipato alle urne con la legge elettorale in vigore, tanto più alto rimane nella coalizione ministeriale il potere contrattuale del partito bertinottiano e degli altri gruppi della sinistra che ho difficoltà a definire radicale per non confonderla con quella omonima di Marco Pannella. Che è di ben altro segno e pasta, per quanto abbia voluto imprudentemente entrare nell’Unione di Prodi procurandosi un meritato salasso di voti.
Il giorno in cui una modifica della legge elettorale dovesse spianare la strada allo scioglimento anticipato delle Camere, la sinistra antagonista sarebbe disarmata. E Prodi non potrebbe più esserne la sponda o addirittura il suggeritore.

Gli rimarrebbe solo la solita parte del leader di passaggio, assediato da complotti dei quali del resto egli ha già detto più o meno esplicitamente di avvertire i rumori, anche se le dure reazioni degli alleati maggiori lo hanno poi indotto a smentirsi.

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