È la prima volta che il premier ammette che la deadline del suo governo potrebbe non essere quella della legislatura: «Non me ne andrò fino al 2011», ha sempre ripetuto. Oggi invece ammette che la festa potrebbe finire almeno due anni prima. «All’orizzonte - scrive - vediamo le elezioni europee del 2009, in cui il nostro partito sarà chiamato a misurarsi. Un appuntamento da non fallire». Il messaggio a Veltroni è chiaro: hai bisogno di tempo per costruire il tuo partito, dunque non conviene neppure a te accelerare troppo i tempi della successione.
L’onda d’urto delle primarie investe Palazzo Chigi. E nel day after i segnali inquietanti per il premier si moltiplicano: «Non è Veltroni, ma gli interessi che si muovono attorno a lui e che lo sostengono che hanno in testa un obiettivo: togliere di mezzo Prodi. Subito», ragiona un esponente vicino al Professore. Che indica lo squillo della carica nell’editoriale di Ezio Mauro su Repubblica, ieri: «Cambiare subito, a costo di strappare, come sarà inevitabile. Altrimenti la speranza si spegnerà, ed è l’ultima».
Di una cosa Prodi si dice convinto: «Se cado sarà per i numeri del Senato, ma non sarà mai Walter a provocarlo: non può permetterselo. Io me ne andrei a casa, ma lui dove andrebbe? Si farebbe del male da solo». E ieri, rivolto a Veltroni, lo ha voluto ammonire: «So che ci saranno passaggi non facili, tensioni e tentazioni. Ma so anche che non cederemo a nessuna di esse».
Tentazioni, già: anche Walter, dicono i suoi, «ha bisogno di almeno un anno di tempo» prima di essere abbastanza in sella da poter affrontare anche un’eventuale prova elettorale. Ma il segnale arrivato dalle primarie potrebbe accelerare un processo che tutti considerano già innescato. «Quei tre milioni di voti per Veltroni servono soprattutto per rottamare Prodi», ha osservato ieri Silvio Berlusconi. E in molti, nel centrosinistra, condividono l’idea.
Raccontano i ds che domenica sera Veltroni era «furibondo», quando si è visto piombare accanto, davanti alle telecamere, il premier in carne ed ossa. Che non lo ha mollato un attimo, durante la diretta del Tg1. Una scelta improvvisa, quella di Prodi, che prevedeva di rientrare nella capitale il lunedì mattina. Invece quando ha visto l’entità del successo che si prefigurava, ha frettolosamente deciso di partire da Bologna. Si è preso la soddisfazione di rubare la scena a Veltroni, sapendo che probabilmente sarà l’ultima volta.
Non se l’aspettava, un afflusso simile alle primarie, che consegnano a Veltroni una legittimazione pari a quella da lui raccolta nel 2005. E ora i prodiani devono fare i conti anche con la débâcle della loro candidata, Rosy Bindi, sostenuta da Parisi e da Flavia Prodi. «Prenderà almeno il 30%», assicurava qualche settimana fa Gad Lerner. Invece si è fermata sotto al 15%, e nell’Assemblea costituente entreranno meno «bindiani» del previsto. Ci entreranno, invece, più «lettiani», perché il terzo incomodo Enrico Letta ha superato di slancio il 10%.
Ma in questo caso sono soprattutto i dalemiani a gioire, confidano al Botteghino: molti candidati in pole position nelle liste del braccio destro di Prodi a Palazzo Chigi erano infatti diessini vicini al ministro degli Esteri, che vanno a rafforzare la sua quota. Ora Veltroni deve preparare i suoi organigrammi, e il voto gli dà la forza di imporre quella «discontinuità» che promette. La prima casella da riempire sarà quella del capogruppo di Montecitorio, che Dario Franceschini deve abbandonare. E già si annuncia una corsa a ostacoli tra le varie anime dell’Ulivo: Franceschini vorrebbe il dl Soro; Rutelli pensa a Ermete Realacci, vicino anche a Veltroni. Piero Fassino pensa a quel ruolo per sé, la Bindi in caso di rimpasto lo chiederebbe come risarcimento. E via elencando. «Una cosa è certa - spiega il rutelliano Giachetti - chiunque siano i candidati, dovranno passare per un voto a scrutinio segreto dei deputati. E non sarà facile».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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